Woody Allen è tornato a Venezia 80, Fuori Concorso, con Coup de Chance, il suo nuovo film che parla dell’importante ruolo che il caso e la fortuna giocano nelle nostre vite, tema caro a tutta la produzione e poetica alleniana. I protagonisti, Fanny (Lou de Laâge) e Jean (Melvil Poupaud) sembrano la coppia di sposi ideale: sono entrambi realizzati professionalmente, vivono in un meraviglioso appartamento in un quartiere esclusivo di Parigi, e sembrano innamorati come la prima volta che si sono incontrati. Ma quando Fanny s’imbatte accidentalmente in Alain (Niels Schneider), un ex compagno di liceo, perde la testa. Presto si rivedono e diventano sempre più intimi…
«Questo è il mio cinquantesimo film. È stato un grande privilegio averlo realizzato a Parigi ed è un grande onore presentarlo a Venezia – ha detto Woody Allen in conferenza stampa quest’oggi al Lido -. Quando ero più giovane i film che ci hanno più impressionato erano europei, francesi, svedesi, italiani. Tutti noi volevamo essere europei. Per il mio 50esimo film mi sono detto che sarebbe stato bello girare in Francia, io non parlo francese ma tutti gli attori sul set parlavano inglese. Mi sono divertito a sentirmi come Renoir e mi sono sentito un regista europeo genuino, per così dire».
«Compirò 88 anni a breve, non sono mai stato in ospedale, nulla di terribile mi è successo, sono stato molto fortunato – ha proseguito il cineasta newyorkese riguardo il suo stato d’animo -. Quando ho iniziato, tutti enfatizzavano le cose che facevo bene e non altre, sono stato molto fortunato come regista a ricevere tanta generosità. Per tutta la mia vita sono stato lodato, non sempre a proposito, ottenendo rispetto e attenzioni. Spero che la mia buona fortuna continuerà, è appena pomeriggio, chissà».
A chi gli chiede quanto quest’ultimo suo film si possa assimilare alle atmosfere gialle e macabre di Match Point, nell’indagare un delicato equilibrio coniugale e borghese che precipita verso il caos, Woody risponde: «Entrambi i film parlano di com’è capricciosa la fortuna e dell’impatto che ha nelle nostre vite. A volte ricevo telefonate dove mi dicono di girare in Islanda, casi in cui non conosco nemmeno bene il paese, ma se avrò una storia che ritengo buona per l’Italia o la Germania magari girerò lì in futuro. Anche Match Point doveva essere girato negli Stati Uniti, ma poi è entrata un’ambientazione britannica e ho cambiato leggermente i personaggi in relazione al luogo, cosa che ho fatto anche in Coup de Chance. Sono modifiche molto semplici che avvengono sempre».
«Trent’anni fa ero il protagonista delle parti che scrivevo ed ero sempre in grado di scrivere parti più interessanti per le donne – aggiunge invece guardandosi indietro -. Non so perché, forse perché mi hanno influenzato intellettuali come Tennessee Williams e Ingmar Bergman che facevano lo stesso. Non sono mai stato in grado di scrivere altrettanto bene i personaggi maschili, se non quelli che scrivevo per me. Spero di aver risposto alla sua domanda, ma questa è la realtà delle cose. Non ho pensato a “La regola del gioco” di Jean Renoir per questo film, anche se tocca temi analoghi».
«Io credo che non sia nulla che si possa fare contro la morte, è una brutta cosa che esiste, e ce la dobbiamo tenere – dice poi in relazione alla sua senilità -. Alla fine di Coup de Chance lasciamo per qualche secondo sullo schermo nero il sottotitolo “non pensarci troppo”; è tutto quello che possiamo fare, non c’è via di fuga attraverso la scienza, la filosofia, la commedia. La morte e l’assassinio sono al centro del teatro fin dai greci, è un tema che coinvolge le persone, le appassiona. Per cui i miei film hanno sempre toccato questi temi direttamente e indirettamente. Ho anche una bellissima idea per un film ambientato a New York e se qualcuno dovesse uscire dall’ombra, obbedendo a tutte le mie limitazioni, allora lo farò, tornerò a girare negli Stati Uniti».
In conferenza stampa c’era anche Vittorio Storaro, ormai collaboratore abituale di Woody Allen, che ne approfitta per una puntualizzazione: «Sono cinquant’anni che stiamo cercando di cambiare questo titolo, direttore della fotografia, che è nato dal sindacato degli americani negli anni ‘60 per rivaleggiare coi registi. Non ci possono essere due registi sul set, per quello è più giusta l’espressione “autore della fotografia“, mentre all’epoca anche loro volevano essere considerati “directors“. Da quando ci siamo incontrati con Woody Allen, nel 2015, ho trovato un grande regista e un grande scrittore soprattutto. Quando ho letto la sceneggiatura di questo film ho visto la possibilità della dualità, che a me piace molto, con una luce diversa per Fanny, che è una moglie-oggetto da mostrare, e per il suo consorte».
«Lei vorrebbe essere una persona più libera di quella che è nella sua vita coniugale e quando incontra un vecchio collega di studi si sente più libera di essere se stessa, per cui ho trovato un tono cromatico dai bei toni caldi e solari della luce laterale e del tramonto – aggiunge Storaro -. Nella casa invece il rapporto è più mediato dalle emozioni e dal pensiero dell’azzurro. Con la digitalizzazione della macchina da presa non ho toccato nulla, mi sono concentrato appunto su intelletto ed emozione. Ho presentato l’idea a Woody prima di girare e lui ha detto: “Vittorio, è proprio quello che è scritto, bravo!“».
«Woody ha riunito tutti e quattro noi attori in un hotel e ci ha detto non vi dirigerò, vi arrangiate coi costumi e la vostra arte drammatica – ha detto l’attrice Valérie Lemercier, che interpreta la madre della protagonista -. Invece alla fine ci ha diretto molto ed è stata una collaborazione fantastica, è bello vedergli rifare un’inquadratura».
«Avevamo sentito dire che Woody dirigeva molto poco, ma non è stato così – precisa invece Lou de Laâge -. Cambiava piani di ripresa e dirigeva le cose nei minimi dettagli. La possibilità di sbagliare crea una tensione che genera a sua volta una suspence gradevole. Anche se non si parla la stessa lingua, la musicalità insieme la si trova».
Foto: Getty (Elisabetta A. Villa/Getty Images)
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