David O. Russell è il prototipo perfetto dell’artista newyorchese. Camicia bianca, occhiali squadrati, gilet, cravatta e ciuffo ribelle, con quell’aplomb da hipster vintage, ti dà l’idea di uno che annota i suoi pensieri su una Moleskine mentre sorseggia un caffè bio in un bar di Williamsburg. Sorridente, e un po’ sornione, si dichiara felice e onorato di essere a Roma mentre giochicchia con le cuffie e chiama accanto a sé l’interprete, perché non vuole sentire la traduzione via radio «come nelle Nazioni Unite».
Sbarcato nella capitale per raccontare American Hustle, Russell riesce a tenere banco per più di mezz’ora con una sola domanda sulla musica, canticchiando una delle sue canzoni preferite e divertendo tutti, ma è anche un uomo che sa mostrare il suo lato più intimo mentre racconta del suo passato, non proprio roseo. Il sangue italiano che gli scorre nelle vene si fa sentire quando interrompe (spesso e volentieri) l’infaticabile interprete per farsi ripetere le frasi, ripetendole poi a bassa voce, cercando di togliere un po’ di ruggine alla lingua insegnatagli dai nonni materni.
American Hustle è il terzo film di un’ideale trilogia che comprende The Fighter e Il lato positivo, e si basa sull’operazione sotto copertura ABSCAM condotta dall’FBI tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, in cui gli agenti federali collaborarono con un truffatore di professione per stanare membri del consiglio e vari politici corrotti. Christian Bale interpreta il truffaldino imbroglione con l’alopecia Irving Rosenfeld, la sua partner in crime è la bellissima, e disposta a tutto, Amy Adams mentre la moglie di Irving, Rosalyn, è interpretata da Jennifer Lawrence. A capo dell’operazione Bradley Cooper che abbandona le parti da bravo ragazzo per ritornare a vestire i panni dell’infamia, questa volta con bigodini rosa a completamento del quadro.
Come in ogni film che si rispetti i fatti narrati sono in parte veri, in parte fittizi. Ecco cosa ci ha raccontato il regista a riguardo.
Come ha lavorato con le musiche in questo film?
David O. Russell: «La musica ha assunto sempre maggiore importanza nei miei film. È stato un crescendo, un aumento progressivo. Questo film ha più scene di danza di qualsiasi altro che abbia fatto. Credo di aver vissuto tutta la mia vita affinché potessi realizzare queste tre opere, ho la sensazione che fossi destinato a fare esattamente questo. Tutto il resto è stato una preparazione. Amo le canzoni trascurate e amo usarle in modo inaspettato, come per gli attori. Per esempio Christian Bale e Melissa Leo in The Fighter cantano I started a Joke, dei Bee Gees. Quando ero piccolo odiavo quella canzone ma da grande ho cominciato ad apprezzarla e per questo ho scelto di farla cantare ai miei protagonisti. Live or Let Die, credo che sia magnifica e molto cinematografica, anche se la gente non va in giro a dire che è la sua canzone preferita. Mi piace perché contribuisce a rappresentare questo personaggio. Si cambia solo quando ci si spaventa, e delle volte devi uccidere qualcosa per farne vivere una nuova. Per questo motivo l’ho trovata perfetta per il personaggio di Jennifer Lawrence».
Per questo motivo i suoi film sono difficili da classificare come genere?
DOR: «Non avrei alcun interesse a narrare di personaggi cinici o avidi, non mi interessano affatto personaggi così. Quello che m’interessa è perché vivono, chi sono, per questo in The Fighter, Il lato positivo e American Hustle ci sono dei personaggi che fanno i conti con chi sono, sono stati, e saranno. Questo loro continuo divenire è centrale nell’intera narrazione e non si verifica solo nel terzo atto del film. La passione per la vita per me è centrale. La sofferenza, il dolore, sono facili da raccontare nei film, quello che voglio fare io è raccontare personaggi che esulano la caratterizzazione. Io non dico mai che faccio un film sulla boxe o una commedia, io faccio film che vanno al di fuori di una specifica categoria».
Le sue ultime tre opere dimostrano uno stato di grazia personale. C’è una spiegazione razionale di questo momento di fortuna nella sua carriera?
DOR: «Sono diventato un regista diverso perché la vita mi ha portato ad esserlo. Dopo aver fatto i primi film mi sentivo perso, non sapevo più che cosa raccontare o che storia fare. Per questo ho cominciato a cambiare il modo in cui raccontavo le storie. Ho un figlio bipolare e ho passato tanto tempo con lui, poi ho divorziato, sono finito al verde, e non ho fatto film per circa sei anni. È stato un periodo difficile, ma il regalo è che mi ha portato vicino alla realtà delle cose. La vita mi ha messo in ginocchio e ho riflettuto e pensato molto. Avevo capito che le storie dovevano partire dal mio cuore, da dentro, vivere partendo dall’istinto non dal cervello, dall’emozioni e le passioni. E questo vale per i miei personaggi, non vivono di ragionamento o raziocino, ma vivono in maniera emozionale e passionale la vita. La storia è importante ma sono i miei personaggi quelli che contano di più. Era come se sapessi chi fossero, e potessi vivere raccontando le loro storie. Amo il modo in cui parlano, combattono, fanno l’amore, e questo mi interessa di più delle storie stesse. Il cambiamento è arrivato con quello che ho vissuto nella mia vita, i film che ho lasciato incompiuti non partivano dal punto giusto, non erano in linea con ciò che ero. Poi ho scritto Il lato positivo come un lavoro per Sydney Pollack, l’anno in cui è morto ed è cambiato tutto».
Il film si apre con la frase «alcuni dei fatti narrati sono reali». Quali di questi fatti allora sono effettivamente veri?
DOR: «La cosa più vera è che queste persone erano innamorate e avevano un gran cuore. Io racconto i fatti che servono al tema che voglio portare nel film, a me interessa il tema di reinventarsi, sopravvivere e ritirarsi su. Questi fatti sono quelli che ho utilizzato per motivare e fare andare avanti la storia. Paradossalmente le storie vere sono quelli più buffe di quelle inventate, ma sarebbe estremamente noioso elencarvele tutte, sarebbe come se un mago si mettesse a tavolino e svelasse i suoi trucchi di magia».
Nei suoi film inserisce sempre personaggi italoamericani. C’è una particolare motivazione personale in questa scelta?
DOR: «I miei nonni da parte di mamma erano calabresi, ecco perché ho a cuore gli italo-americani. Mia madre era una segretaria italiana cattolica. La mia famiglia è sparsa in tutti e cinque i quartieri di New York e ho passato tanto tempo a osservarli, loro sono una cassa del tesoro da cui attingere per raccontare le mie storie».
Conosce qualcosa del cinema italiano, ha dei registi di riferimento?
DOR: «Lina Wertmuller, Fellini, De Sica, Rossellini, Pasolini… ce ne sono troppi!».
Come giustifica il personaggio di Jeremy Renner? Soprattutto in un mondo dove la corruzione è un problema attuale.
DOR: «Non dirò mai e poi mai che essere corrotti è una buona idea, ovviamente non avrebbe dovuto farlo, e ci sono persone che si rifiutano di prendere mazzette. Credo che in un certo senso prima fosse un tempo più innocente. I soldi nella valigetta forse erano qualcosa di più “puro” rispetto a oggi, dove centinaia di milioni di dollari vengono smistati in maniera più o meno legale e vengono usati per corrompere. Il mondo ora è più complicato e corrotto. Il sindaco interpretato da Jeremy mi piaceva perché era un personaggio amabile, una persona che in maniera sincera voleva bene ai propri elettori. Però ovviamente avrebbe fatto bene a non farsi corrompere».
Come fa a convincere i suoi attori a fare dei ruoli così diversi dalla loro natura?
DOR: «Vi ho raccontato quella che è stata la mia vita, e loro lo percepiscono. So da dove vengono e dove voglio andare. Bradley Cooper e Jennifer Lawrence hanno visto The Fighter e hanno accettato di fare Il lato positivo, un film che avevo scritto prima ma che ho avuto la possibilità di fare grazie a The Fighter. Quello che cerco di realizzare è creare dei ruoli che siano degni per i miei attori. Io vado a casa loro, è come se facessi io il provino per loro! Voglio scrivere i ruoli migliori, personaggi che gli attraggono e spingono a cimentarsi e rischiare.Quel periodo della mia vita che mi ha reso molto umile e mi ha fatto capire di doverlo restare. Devi cercare di impegnarti e fare il massimo, continuando a sentire i morsi della fame, mantenendo i budget bassi senza pensare ai risultati al botteghino o altro. Questo è lo stimolo a dare il meglio di sé».