Il nuovo Baywatch obbedisce a un guilty pleasure onestissimo e piuttosto elementare: ritrovare quei corpi, quello spirito che negli anni ’90 teneva i nostri occhi incollati alla Tv per godere di un susseguirsi di seni in bella vista corredati da costumi rossi e pettorali scolpiti immersi in esotiche spiagge californiane. Un immaginario che ogni volta ripeteva se stesso, senza badare all’intreccio e possibilmente da gustare al rallentatore, come a congelare il tempo e lo sguardo, in quelle occhiate alla mise balneare di Pamela Anderson che ha segnato un’epoca (immancabile il suo cameo e quello di David Hasselhoff).
La riproposizione della serie Tv in chiave cinematografica, non certo una novità a livello produttivo e industriale (Starsky e Hutch, Hazzard, 21 Jump Street e CHIPs, per citare gli esempi più affini a Baywatch di rifacimenti sul grande schermo di prodotti televisivi) ha alle spalle una pulsione che non è solo nostalgia, ma contiene in sé qualcosa di più, di filologico e sentimentale, vicino quasi a una devozione che trascenda gli anni trascorsi. Un approccio che va al di là ovviamente anche degli esiti stessi del film, molto diversi dallo stile naïf della serie e dalla sua elementarità fatta di davanzali saltellanti e storielle da spiaggia.
Perché remake non vuol dire, alla lettera, rifare, nel caso di film come il Baywatch firmato dal Seth Gordon di Come ammazzare il capo…e vivere felici: significa riconoscere come appartenente a una fetta irrinunciabile di gusto collettivo un prodotto, e riproporne con zelo lo spirito e gli elementi di stupore anche quando si è, per ovvie ragioni, costretti a tradirlo, quel modello di riferimento. Pur nella forma di una sfrenata e scatenata commedia demenziale il nuovo Baywatch è dunque anzitutto un film che ritorna, come molti b-movie odierni, alla centralità del corpo come unico, vero motore del contemporaneo, oggi come allora perno insostituibile per definire confini e identità, spazi e desideri.
E il Corpo con la c maiuscola è quello di Dwayne The Rock Johnson (nei panni di Mitch Buchannon), la scultura vivente che catalizza le attenzioni di tutti e intorno al quale tutto ruota. In questo caso sulla sua strada c’è la malvagia e seducente Victoria Leeds (Priyanka Chopra), che organizza dei traffici di droga sulla spiaggia controllata dai bagnini della Baywatch, mentre al suo fianco ci sono l’insopportabile campione olimpico Matt Brody, che ha il volto e il corpo sempre più muscolare e d’acciaio di Zac Efron, e le due travolgenti bellezze da spiaggia interpretate da Alexandra Daddario e Kelly Rohrbach. Il nome del personaggio della Daddario, Summer Quinn, è già una dichiarazione d’intenti, come lo era già nella serie originale, ma la giovane interprete resa celebre dal topless in True Detective è al contempo una scelta di casting indovinata e scaltra, obbligata e indiscutibile.
Nessuna pretesa di oltrepassare la soglia della caricatura sboccata e di approdare alla realtà, ad ogni modo, attraverso il ricorso a malviventi, fondi tagliati e speculazioni edilizie: Baywatch è un film troppo onesto e disimpegnato per farsi carico di un livello di lettura così didascalico e preferisce giocarsi tutte le sue carte al tavolo dell’aggiornamento pirotecnico del passato, per solleticare gli istinti del proprio pubblico immergendolo in un cosciente ed esplosivo divertimento senza conseguenze. Le damigelle in pericolo, pertanto, non si limitano ad annegare ma sono circondate da fuoco e fiamme, il ralenti – la chiave di volta formale della serie originale – diventa uno strumento sul quale ironizzare a più riprese e in maniera smaccata, la famiglia e la comunità sono l’unico orizzonte cui fare davvero ritorno.
“Non siamo mica in una serie tv!”, chiosa questo nuovo Baywatch che ricorre non solo agli steroidi dei suoi corpi ma anche a un’estetica gonfiata a dovere per l’occasione, di cui gli addominali irreprensibili sono solo l’emanazione più visibile e diretta (ma poi ci sono anche le scene action, i villain, le figure femminili bombastiche e tutto il corredo di elementi perfettamente intuibile). Al posto della purezza e dell’ingenuità dell’originale c’è però, sopra ogni altra cosa, la consapevolezza di un’anima corrosiva che si ritrova solo e soltanto specchiandosi in se stessi e nei propri piaceri proibiti, dello sguardo come del tatto, dell’occhio come della carne. Non certo una novità, ma l’unico nodo cruciale cui è possibile, per un prodotto del genere, fare ritorno.
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