Cinquant’anni fa veniva pubblicato per la prima volta Lupo Alberto, e da allora nel fumetto italiano sono cambiate molte cose. Le serie da edicola hanno fatto un passo indietro, i manga si sono imposti definitivamente sul mercato; le case editrici sono aumentate, il pubblico di lettori è cresciuto e di vere novità – novità come il personaggio di Silver, per esempio, o come la Pimpa di Altan, che esordì nel 1975 – ce ne sono state relativamente poche.
Fa parte delle cose della vita, direbbe qualcuno. A volte si fa bene, altre volte si fa meno bene. Eppure è innegabile che oggi, negli anni ’20 del Duemila, si faccia una certa fatica a pensare a nuovi personaggi e a nuove saghe. Manca la capacità di immaginarli disegnati, di cogliere uno spunto; manca soprattutto l’interesse, da parte degli editori, di investire in questo tipo di operazioni. Perché oggi si punta sui fumetti autoconclusivi, di uno o al massimo due volumi. Le riviste sono rarissime, e non sempre vanno bene.
Lupo Alberto, con i suoi cinquant’anni, non si conferma semplicemente come uno dei grandi protagonisti della nona arte italiana; con buone probabilità, pure il rappresentante di una razza in via d’estinzione, che difficilmente sopravviverà alle mode e al lentissimo rinnovamento del mercato. Lupo Alberto è Lupo Alberto, un simbolo. E quindi, forse, non è particolarmente corretto da parte nostra aspettarsi che anche altri raggiungano la stessa visibilità e lo stesso impatto sull’immaginario comune. È importante, però, provare a riflettere su quello che viene pubblicato e offerto ai lettori, che finiscono per scegliere solo determinati generi e storie, per affezionarsi a questo o a quell’autore senza azzardarsi a sperimentare altro. Non c’è un’educazione alla lettura e, di conseguenza, alla scrittura. Perché, come dice Paolo Cognetti, tutti i lettori forti, a un certo punto, pensano di fare il grande salto e di scrivere le loro storie. E così, crediamo, succede a chi legge i fumetti.
Oggi c’è quest’idea, abbastanza contorta, secondo cui è fondamentale avere un seguito sui social ed affermare il proprio successo sulla base dei follower e non delle copie vendute. Insomma, essere attivisti prima ancora che autori. Quando parliamo di fumetti, parliamo di autori e mai di quello che scrivono o dei loro personaggi. Ci soffermiamo più sullo stile e sul linguaggio, meno sul contenuto (ed è tutto indispensabile, intendiamoci; si fa sentire, però, l’assenza di un approccio critico più ampio e curato).
Una volta, erano le riviste di fumetto a fare questo lavoro: a dire ai lettori cosa leggere, chi aspettare; perché apprezzare questa o o quella saga, questo o quell’autore. Era un processo lento e graduale, mai immediato o travolgente. Doveva stratificarsi con calma e mettere radici. Lupo Alberto compie cinquant’anni ed è una notizia di cui essere veramente contenti (tra l’altro l’8 marzo, a Modena, verrà inaugurata la mostra Zitt! Zitt! Arriva Lupo Alberto: ve la consigliamo). Deve essere un esempio e, allo stesso tempo, un monito. Noi, i grandi maestri come Silver, li rispettiamo.
Sempre di meno, però, li ascoltiamo. Ci piace averli nelle fiere, chiedere loro una firma o un disegno, ma non c’è quasi mai un lavoro di approfondimento e di contestualizzazione, per dare – come si dice – a Cesare quel che è di Cesare.
Il fumetto italiano non può essere solo una serie di posti occupati nelle classifiche dei libri più venduti; e non può nemmeno essere la corsa allo stand più grande e ricco della prossima Lucca Comics & Games. Torniamo a parlare delle storie, dei loro personaggi, a dare ai fumettisti qualcosa di più di un titolo o di un post sui social. La cultura si fa nel confronto e nell’analisi sensata dei contenuti.
(1), Silver, MCK Publishing
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