Howard Ratner (Adam Sandler) è un carismatico gioielliere del Diamond Discrict di New York alla ricerca del colpo della vita. Ossessionato in maniera sconvolgente dal denaro, dopo aver messo in fila una serie di scommesse ad alto rischio sulle partite di NBA, che promettono di ripagarlo alla grande, Howard si ritrova sul filo del rasoio di un equilibrio sottile tra affari, famiglia e avversari che le mette sempre più con le spalle al muro nell’instancabile percorso verso la (sua) vittoria.
Diamanti grezzi, il nuovo film dei fratelli Josh e Benny Safdie disponibile su Netflix dallo scorso 31 gennaio, per il quale in tanti hanno parlato di scippo per la mancata nomination all’Oscar a un eccellente Adam Sandler, è una cavalcata nell’abisso lucente e ambiguo delle dipendenze: una metafora esplicitata fin da subito dai riflessi cangianti e mortiferi delle pietre preziose, accecanti ma anche torbidi come un mare in tempesta. Un po’ come lo era già il precedente Good Time, terzo film dei Safdie risalente al 2017 con protagonista Robert Pattinson e dalla stessa casa di produzione, l’indipendente A24.
Sono, tra le altre cose, anche dei grandi e non convenzionali direttori d’attori, i Safdie, abili nel cavare fuori dai propri interpreti, specie da quelli più a torto sottostimati nella vulgata e nelle chiacchiere cinefile, un’anima tesa come una corda di violino, un guizzo imprevisto e nevrotico, una miriade di risvolti non pacificati. Howard Ratner è un gemello diverso dei fratelli Nick e Connie di Good Time, con la passione feroce per gli opali da farsi spedire dall’Etiopia dentro dei pesci morti al posto delle rapine da vivere in apnea.
Quel che conta, però, è la sostanza simbolica della droga che s’inietta quotidianamente: quell’adrenalina così pressante e martellante da rischiare di scompaginare ogni santo giorno le coordinate della sua esistenza. Tra la strade e le viscere della Grande Mela (la seconda scena del film dopotutto è una colonscopia) e quale stelle che Howard sfrega tra le sue mani, oscillando puntualmente tra l’azzardo e il baratro.
Howard è, non a caso, un uomo comune che intercetta suo malgrado personaggi speciali, come il cestista Kevin Garnett, star dei Boston Celtics, o il cantante The Weeknd (entrambi nei panni di se stessi). Una figura e diciamo anche un omuncolo, insopportabile e insieme irresistibile, che riprende le nevrosi schizofreniche e lunari cui Sandler aveva dato corpo in Ubriaco d’amore di Paul Thomas Anderson, sua sublime incursione in territorio surreale, per caricarle di un’iper-funzionalità esilarante da gangster di mezza tacca: la cifra del suo disagio è data da un sovrapporsi pressoché ininterrotto di frasi e dialoghi che si susseguono in overlapping, con una fluidità che scoperchia il rumore di una disperazione molto più sotterranea delle apparenze.
Nell’idea di décor del film, da questo punto di vista, le parole sono un tutt’uno con la pasta delle immagini e gli studiatissimi suoni: la sceneggiatura, la fotografia in 35mm di Darius Khondji e la musica dell’artistica elettronico-sperimentale di Brooklyn Oneohtrix Point Never, collaboratore fisso dei Safdie, in tal senso si equiparano con una flagranza una compattezza d’ispirazione che, trovandoci a New York, non può non ricordare il primo Scorsese maturo e i suoi impasti di suggestioni brutte, sporche e sovreccitate.
Sul cattivo tocca invece glissare e cercare altrove, perché Diamanti grezzi non giudica mai il suo protagonista e ci costringe a sposare il suo sguardo forse miope eppure costantemente disposto a negoziare col futuro sfide al rialzo, fino ad abbracciare (il tutto, o il niente?) sulle note de L’amour toujours di Gigi D’Agostino. Tutti aspetti che fanno di Howard Ratner un ennesimo, rinnegato e improbabile eroe americano, conficcato nei bassifondi di quell’ambizione che scorre imperterrita nella pancia degli Stati Uniti, lontana dai riflettori e dagli altari, eterna e contemporanea, così specifica e così di tutti.
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