Nonostante il freddo, nonostante il buio, nonostante l’assoluta indifferenza degli spettatori, incolonnati al gelo in attesa di entrare in sala, un gruppo di giovanissimi manifestanti intona canti e sventola cartelli di protesta nei pressi della fermata dell’autobus. È la serata della prima mondiale di Red State, il nuovo film di Kevin Smith (Clerks, 17 anni fa, lo impose all’attenzione del mondo proprio qui al Sundance Film Festival), che anche se nessuno ha ancora visto si è già guadagnato la ribalta mediatica grazie all’etichetta di horror sul fondamentalismo cristiano. Considerato che siamo ad un festival di cinema ma anche in territorio mormone, l’entusiasmo e il disprezzo si pareggiano.
In sala la serata inizia e finisce completamente al di fuori dei canoni, come era lecito aspettarsi dal personaggio. Prima della proiezione Smith si presenta al microfono con un cartello che recita DICK TASTES YUMMI (a voi la traduzione), in risposta ai molti FAGS DOOM NATION e GOD HATES YOUR THOUGHTS sventolati all’esterno. E dopo il film lo stesso Smith aggira il previsto Q&I (botta e risposta con il pubblico) con un monologo-fiume in cui sostanzialmente afferma di non riuscire più a sopportare le logiche del sistema-cinema americano inteso in tutta la sua estensione, dalle major, che spendono milioni di dollari per manipolare la gente ma stringono la cinghia quando c’è da finanziare un film politicamente non allineato, fino alla stampa specializzata (qui al Sundance non erano previste proiezioni stampa del suo film).
Per questo, a quanto pare, lascerà la regia dopo il suo prossimo film, dedicato al mondo dell’hockey, limitandosi alla produzione di giovani talenti. Per questo, inoltre, Smith ha deciso di promuovere Red State (nella foto) in modo non convenzionale, ovvero con un tour che toccherà i principali teatri delle principali città americane (si parte dalla Radio City Hall di New York) in cerca di pubblico e compratori. Oltre naturalmente all’uso di Twitter e degli altri social network di cui è da tempo un alfiere.
Nel mezzo di tutto questo c’è il film, storia di una setta religiosa di ispirazione cristiana e cattolica che rapisce omosessuali e ragazzini in cerca di avventure, e poi li uccide tra una citazione della Bibbia e un canto rituale.
Il ruolo del folle pastore a capo della comunità è affidato a Michael Parks (lo sceriffo di Kill Bill), che si impegna in una performance estremamente teatrale, tutta ghigni e occhiate lascive. Mentre il capo delle forze speciali che indaga sulla setta è John Goodman, che recita sempre meno ma sempre meglio.
Red State parte con atmosfere da horror rurale e si trasforma, dopo moltissime chiacchiere (e un monologo-fiume, un altro, il che la dice lunga sull’ego e sul senso della misura del suo autore) atte a dissipare qualsiasi ambiguità sugli intenti politici del film, in un thriller d’azione. Anzi, in un’unica lunghissima sparatoria, tutta ripresa in campi medi e primi piani. Smith ne ha per tutti, dai fanatici all’FBI, ma la sua verve polemica lascia per strada il controllo della materia cinematografica e il film resta schiacciato sotto il peso del proprio approccio predicatorio. Dando per giunta la sensazione che il regista non sia poi così distante dai personaggi che condanna, nei toni se non negli argomenti.
A margine, è interessante notare come un altro film proiettato qui a Park City, Salvation Boulevard di George Ratcliff, tocchi lo stesso tema di Red State, ma con i modi della commedia. In questo caso Pierce Brosnan interpreta il pastore/divo di un’altra micro congregazione cristiana che, per nascondere un crimine, innesca una reazione a catena di cui fa le spese il suo placido adepto Carl (Greg Kinnear), cui girano le spalle tutti, a partire dalla moglie (Jennifer Connelly, irresistibile nel ruolo dell’invasata religiosa). In entrambi i film il responso sembra lo stesso: questa gente non c’è con la testa ed è pure pericolosa.
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