L’Egyptian Theatre è nella parte alta di Main Street. Per raggiungerlo dal mio albergo devo prendere due autobus e, una volta sceso alla fermata delle corriere, risalire la strada a piedi per un pò.
Qui è iniziato tutto. Lo ricorda Robert Redford – camicia verde a quadri infilata nei jeans blu, che mostra spietata una pancia generosa – alla conferenza stampa di inaugurazione del festival, tenuta proprio in questo piccolo cinema di montagna. «Quando trent’anni fa iniziammo questa avventura (il Sundance Institute è stato fondato nel 1981, anche se Redford è diventato presidente del Festival solo quattro anni dopo, dandogli il nome attuale, ndr) avevamo un cinema solo, questo».
L’Egyptian Theatre è piccolo e buffo. Alle pareti sono appese delle riproduzioni in plastica della sfinge e sopra lo schermo corre un fregio decorato da alcuni geroglifici decisamente approssimativi. Conta appena 290 posti. Ma con il suo frontone nero e triangolare che sporge su Main Street annunciando in lucide lettere di plastica “SUNDANCE FILM FESTIVAL“, è anche il simbolo più ricorrente della manifestazione.
Oggi le sale di Park City in cui si svolge il festival sono diventate dodici. La più grande, l’Eccles Theatre, ha addirittura 1270 posti, e si staglia sulla cornice ondulata delle colline nevose come la proverbiale cattedrale nel deserto, solido e squadrato come un hangar aereo.
Nonostante questo la vocazione del festival non è cambiata, e può essere riassunta nella frase citata dal direttore John Cooper: «le storie uniscono, le teorie dividono». E anche a chi fa notare che secondo molti il Sundance sta perdendo via via la sua vocazione indipendente, concedendo troppo al glamour e alle star, Redford risponde: «il nostro lavoro non è mai cambiato, scegliamo i film per le storie che raccontano e per come le raccontano, il resto non ci interessa».
La sera iniziano le proiezioni per la stampa, in anticipo di un giorno su quelle per il pubblico. Il documentario inaugurale, Project Nim, convince e commuove la platea di giornalisti. Diretto da James Marsh, già vincitore del premio Oscar nel 2009 con Man on Wire, storia del funambolo che camminò per un’ora su un cavo teso tra le torri gemelle (recuperatelo, l’ha edito Feltrinelli), Project Nim racconta un esperimento scientifico del 1973.
Nim, uno scimpanzè di pochi giorni, viene strappato alla madre naturale e cresciuto in una comune famiglia composta da due genitori e sette figli. Un esperimento sul linguaggio (uno scimpanzè cresciuto come un essere umano è in grado di imparare a comunicare come un essere umano?) che da test sull’intelligenza animale si trasforma velocemente in prova della stupidità dell’uomo, non appena alla questione scientifica si sovrappongono dinamiche affettive e legali.
La storia di Nim non aggiunge molto a quello che si può presumere delle capacità di un animale, ma è in sé un racconto stupefacente di una vita fuori dall’ordinario. Appassionante come un reportage giornalistico e toccante come una fiaba, proprio come Man on Wire.
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