Arguto, cinico, rotondeggiante, imprecisamente collocato intorno alle 40 primavere: se il Sundance avesse un volto, sarebbe senz’altro il suo. Reduce da un’intervista televisiva e da una seconda seduta di trucco – anche se non c’è nessuno a riprenderci – Paul Giamatti prende posto con una certa apprensione all’altro lato del tavolino di plastica del New York Lounge presso cui è fissata la nostra intervista: le sedie sono basse e strette.
Lanciato nel 2003 proprio dal successo clamoroso ottenuto qui a Park City da American Splendor (purtroppo inedito da noi), Giamatti stavolta presenta Win Win, una commedia vagamente esistenzialista che gli sembra cucita addosso. È la storia di un avvocato in piena crisi di mezza età (economica, fisica e morale) che recupera energia e prospettive quando nella sua vita entra Kyle, ragazzino iperdotato per la lotta libera che lui comincia ad allenare e a seguire nei campionati interscolastici.
Qui ed ora, al 545 di Main Street, io e Giamatti siamo circondati dal cast del film e da una folla di giornalisti e addetti stampa in frenetica agitazione. Ma ancora prima di iniziare, come se mi avesse letto nel pensiero, lui si sporge premuroso verso il mio registratore.
Più lo osservo e più mi rendo conto che conferma alla perfezione il cliché dell’intellettuale timido e sensibile, persino indifeso: mentre parliamo tiene il capo reclinato verso il basso, in segno di difesa. Mi guarda in tralice, da sotto in su, nella fessura che si apre tra la montatura degli occhiali che gli pendono sul naso e la fronte spaziosa.
Solo in seguito, e d’improvviso, si illumina di un sorriso largo e spontaneo, quando gli faccio notare come in Win Win il suo personaggio cambi completamente a seconda che si rivolga alla moglie, agli amici o al ragazzino di cui si prende cura. In quel momento alza il capo (una specie di erezione dell’orgoglio) e per una manciata di secondi libera la tensione e spiana il volto, cavalcando un’onda di palpabile esaltazione, l’epifania di un lavoro ben fatto.
Ha gli occhi verdi Paul Giamatti, sempre vispi e sempre stanchi. Ha l’entusiasmo di un ragazzino e lo sfinimento dell’impiegato stampati in faccia, assieme. Una miscela quasi unica (mi viene in mente giusto Greg Kinnear) che non smette di procurargli premi e riconoscimenti critici, fino al recentissimo Golden Globe per La versione di Barney. Il momento più divertente della nostra chiacchierata, ora che siamo entrambi più rilassati, lo tocchiamo quando gli chiedo un aneddoto sul suo rapporto con Monica Bellucci durante la lavorazione di Shoot’em Up.
«Avevamo questa scena piuttosto esplicita in cui io la dovevo torturare con una pistola bollente e non sapevamo esattamente fino a dove potevamo spingerci. Io ero un pò rigido ma lei mi afferrava la mano con la pistola e me la tirava verso il basso, verso le cosce. Non era per niente intimidita: è una persona completamente libera, fantastica. Allora gli ho chiesto di insegnarmi qualche volgarità in italiano, qualcosa che potessi usare in quella scena. E lei mi ha detto ‘Chiamami “piccola troietta”‘».
A questo punto io sto ridendo, lui sta ridendo, e sembra che non abbiamo fatto altro che parlare di cinema per una vita intera. Eppure quando i miei dieci minuti scadono, e io lo ringrazio e gli dico che ho finito, in un attimo sembra richiudersi in sé, ritirandosi nella camicia blu, del colore dei jeans, che gli resta aperta sul colletto, lasciando intravedere un triangolo di petto tondo e villoso.
Mi saluta con cordialità e distacco e si porta via, consapevole e inquieto, il suo immenso talento.
Io invece ringrazio l’addetto stampa, metto via il registatore nello zaino, ed esco nella serata gelida, dove la neve cade obliqua sui marciapiedi fradici.
Leggi la seconda puntata del Diario dal Sundance di Giorgio Viaro
Leggi la prima puntata del Diario dal Sundance di Giorgio Viaro
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