La serie Diavoli è stato un successo salutato al suo esordio da ben 637 mila spettatori medi, divenendo così il miglior debutto per una serie Sky Original, coprodotta con la Lux Vide di Luca e Matilde Bernabei.
Domani andrà in onda l’ultima puntata di questa saga, che vede protagonisti Alessandro Borghi e Patrick Dempsey nei panni di due squali dell’alta finanza, che sono passati dal rapporto mentore/allievo a uno scontro senza esclusione di colpi.
Giunti all’epilogo della guerra tra questi due monaci guerrieri (come li ha definiti Guido Maria Brera, dal cui omonimo romanzo è stata tratta la serie), abbiamo raggiunto la sceneggiatrice Elena Bucaccio (già autrice di molti successi in tv), per farci raccontare i segreti di questa serie che ha irretito il pubblico italiano.
Partiamo dalla fine. È già stato annunciato da Nils Hartmann un sequel. Tu farai nuovamente parte del team di scrittura? Hai già delle anticipazioni in proposito?
«Non c’è ancora una squadra completa, ma è molto probabile. Diavoli 2 partirà da una Londra deserta. Non si può ignorare quello che sta accadendo con il Coronavirus. Inoltre, le ultime dichiarazioni di Trump sulla sulla Cina fanno capire quanto la gestione del virus sia strettamente connessa al debito pubblico americano. Probabilmente, l’origine di questo virus provocherà dei cambiamenti negli equilibri economici molto forti e ne parleremo sicuramente nella seconda stagione. Anche perché sarà vero che è tutta colpa della Cina o sarà una scusa che l’America userà per risolidificare la salute del dollaro? Era vero che Portogallo, Italia, Grecia e Spagna erano i maiali dell’Europa (PIGS) o è stata una trovata mediatica Usa per indebolire la moneta europea e rafforzare il dollaro?».
Scrivendo questa serie, sei diventata un po’ “complottista”?
«Da questa serie ho imparato che tutto quello che vediamo è solamente una piccola parte dei collegamenti tra politica, finanza, medicina ed etica…».
Com’è stato lavorare al fianco di Guido Maria Brera?
«Guido ha accesso a una serie di fonti interne al mondo della finanza, per cui ogni tanto ci metteva a conoscenza di alcuni retroscena. E, pur essendo vero che si tratta di interpretazioni e non di certezze, ha una visione molto ben documentata dei fatti».
Qual è stato il tuo ruolo all’interno del team degli sceneggiatori?
«Io ero quella meno esperta di finanza all’interno della squadra. Rivestivo un po’ il ruolo di Oliver all’interno del gruppo dei personaggi. In pratica, quando un concetto finanziario lo capivo io, allora si era sicuri che lo avrebbe capito anche il pubblico. Dicevano: “Fatelo scrivere alla Bucaccio, così lo capiscono tutti“. Io ho dato tre esami di Economia all’università, tappandomi il naso e imparando tutto a memoria, però il bello di questa serie e del lavorare con Guido è che ti fa capire che non si tratta solo di economia. I Diavoli sono un gruppo di persone non eletto politicamente che detta l’agenda politica, quindi diventa comprensibile anche per chi non è un esperto di finanza».
Anche se in parte si può fingere di esserlo, visto che la serie fornisce anche un po’ di gergo tecnico…
«Ho imparato cosa vuol dire “shortare” o “andare lunghi”, ma più a livello intuitivo. Comunque, ci è sembrato giusto usare il linguaggio proprio di quel mondo».
Secondo la tua esperienza in questa serie e al fianco di Guido, chi gestisce la finanza internazionale è un diavolo?
«Quello che ho capito, lavorando alla serie, è che poteri occulti non significa necessariamente poteri malvagi. La gestione degli equilibri mondiali raramente è in mano a politici eletti e, laddove questi politici non riescono a dettare un’agenda o a colmare il vuoto lasciato dalle loro stesse decisioni, ci sono poteri economici fortemente legati ai poteri dello stato che suppliscono alle mancanze dei politici. E non è per forza un male. Il nostro Dominic Morgan non è un uomo malvagio, ma il fatto che a prendere determinate decisioni debbano essere uomini come lui e non dei capi di stato eletti è un grave problema del sistema. È un pericolo. Ed è ciò di cui diventa consapevole Massimo nel corso degli episodi».
A un certo punto vediamo proprio come nel sistema di credenze di Massimo si crei una crepa…
«Massimo ha una sorta di brusco risveglio quando capisce le sue responsabilità nei confronti del destino del fratello di Sofia. Questa è stata una mia idea. Alessandro Sermoneta e Mario Ruggeri, gli altri due sceneggiatori italiani del team, erano molto più preparati di me dal punto di vista finanziario e politico. Io ho lavorato molto alla drammaturgia dei personaggi, per cui ho cercato un qualcosa che fosse fortemente comprensibile sia per il pubblico sia per suscitare una reazione in Massimo. Bisognava fargli capire che spingere un bottone a Londra significa non solo far vincere il proprio cliente, ma agire sulle vite di persone come il fratello di Sofia».
A proposito di potere drammaturgico, stiamo assistendo nei giorni dell’epidemia al valore incredibile dello storytelling. Più dei fatti è importante come questi vengono presentati e raccontati. Sei d’accordo?
«La narrazione dà forma al mondo, è una cosa incredibile. Noi in Diavoli abbiamo raccontato molto quanto il controllo sull’informazione determini la costruzione mediatica del mondo. L’arresto di Strauss-Khan (ex direttore del Fondo Monetario Internazionale) così come l’uccisione di Gheddafi, raccontati nella serie, ne sono una prova emblematica. Strauss-Khan ha molto probabilmente tentato di violentare una povera cameriera, così come è indubbio che Gheddafi fosse un dittatore. Il fatto, però, che l’arresto del primo sia arrivato quando Strauss-Khan diceva “Non è giusto che il dollaro sia l’unica moneta importante del paniere internazionale. Dobbiamo creare un’altra moneta” è inquietante e ha cambiato l’equilibrio economico del mondo. Allo stesso modo, lo storytelling sulle fosse comuni in Libia ha determinato una serie di decisioni che hanno portato all’uccisione di Gheddafi, cambiando i nostri destini. Nella seconda stagione di Diavoli la narrazione su quale paese sia più responsabile rispetto agli altri della diffusione del Covid-19, sulle app di tracciamento e così via, avranno un ruolo essenziale. È inquietante poi come da narratori avessimo già immaginato delle cose, ma da cittadini no. Lo storytelling, a volte, è come un profezia che si autoavvera».
È lo storytelling che influenza il mondo o è il mondo che influenza lo storytelling? Cosa viene prima?
Per farla semplice, io, per esempio, ho scritto 6 stagioni di Che Dio ci aiuti, che è un “procedural dell’anima”. In ogni puntata ci sono dei casi. A ogni puntata ne inventavamo uno diverso. Dopo 15 giorni leggevi sul quotidiano: “Donna uccisa in circostanze…”, e sembrava proprio il caso che avevamo raccontato nella serie. A un certo punto abbiamo iniziato a guardarci in faccia sospettando che tra noi ci fosse un serial killer. Non sai più se sei tu che ispiri il mondo o se è il mondo che ispira te».
Qual è la maggiore differenza tra i duellanti di Diavoli, Dominic e Massimo?
«Dominic è uno statista, che ha accettato con grande dolore che suo figlio sia andato in guerra, perché pensa che un uomo debba sacrificarsi per il proprio Paese. Per cui è un uomo che farebbe di tutto per garantire l’equilibrio mondiale. Massimo, invece, è uno che si è fatto da solo con una forta carica di riscatto sociale e che farebbe di tutto per vincere. E ora deve scegliere se seguire l’uomo che l’ha preso sotto la sua ala come un padre o rimettere in discussione tutto».
Patrick Dempsey è stato per anni protagonista di Grey’s Anatomy, finché Shonda Rhimes non ha deciso di farlo morire in un modo piuttosto stupido. Come gestisci il potere di far morire i tuoi personaggi?
«Spesso bisogna sacrificarne alcuni per portare avanti le serie. Col lieto fine non c’è più narrazione. Io sono famosa per essere un’assassina dei partner dei protagonisti nelle storie. Ammazzo tutti. In Che Dio ci aiuti a un certo punto ho fatto morire il coprotagonista con il figlio piccolo. Non puoi capire cosa mi hanno scritto su Twitter: “Sappiamo dove abiti, assassina di bambini“. Devo ammettere di aver avuto un po’ di paura».
È capitato anche a te di rifiutare una decisione presa da uno sceneggiatore che ami?
«Beh, sempre in Grey’s Anatomy, quando Cristina Yang (Sandra Oh, Ndr) se ne va a Zurigo, per me la serie è finita volevo suicidarmi. Quando ha ucciso Patrick Dempsey ho proprio smesso di guardarla».
La Rhimes, tra l’altro, lo ha eliminato perché non ci andava più d’accordo. Lo trovi giusto?
«È comprensibile. Ci sono attori che ti esasperano e che ti “chiedono” di essere uccisi, ma la realtà nel caso di Dempsey e che il suo personaggio si era esaurito. È anche vero che quando vivi per molte stagioni con le stesse persone si crea una sorta di famiglia con dei legami fortissimi, per cui è più che normale che si creino dei conflitti».
Qual è lo sceneggiatore a cui guardi come modello di riferimento?
«Vorrei essere Amy Sherman-Palladino e aver scritto The Marvelous Mrs. Maisel e prima ancora Una mamma per amica. E se c’è una serie che avrei voluto scrivere io è Fleabag. E poi sono una fan di This Is Us».
Quest’ultima serie è la prova che sei un’assassina, ma con un cuore…
«La mia frase tormentone durante la scrittura delle scene di Diavoli era “Ma il calore dove sta?”. Lo cerco sempre nella delineazione dei personaggi. Se in una serie dedicata a un mondo come quello della finanza sotto non ci metti un po’ di sano melò, inteso come costruzione di sconfitte e vittorie dei personaggi, manca qualcosa di fondamentale».
Come hai fatto a inserire il calore in un ambiente glaciale come quello di Diavoli?
«Siamo partiti dal rapporto padre/figlio tra Dominic e Massimo. Se un giovane uomo cerca un padre, com’è il rapporto col suo vero padre? È quindi siamo andati a ritroso alle radici famigliari di Massimo. Se un uomo deve rimettere in discussione la sua vita, come glielo facciamo fare? E allora lì entra in campo la moglie Kerry. Si va a cercare il punto debole del personaggio».
È presumibile aspettarsi una redenzione da parte di Massimo nella puntata finale?
«Non lo dirò mai. Ma non c’è mai redenzione totale».
Del resto il tratto comune a tutti personaggi è l’ambiguità.
«È vero. Della stessa Sofia è difficile capire se lotta per il bene del mondo o per vendicare la morte del fratello. Anche lei è un personaggio complesso. Forse solo Kerry non ha colpe, però sono tutti personaggi sfumati, perché veri. Del resto viviamo in un sistema complesso e poi non ci sono più regole che impongono una visione manichea dei personaggi, per cui è diventato divertente scrivere fiction in quest’epoca».
A cosa stai lavorando ora?
«A una storia famigliare, Buongiorno mamma, con Raoul Bova come protagonista, per la regia di Giulio Manfredonia, proprio sul modello This Is Us, sempre con Lux Vide, le cui riprese a causa dell’emergenza sanitaria si sono interrotte».
Come autrice è difficile imporre il proprio punto di vista in un’industria prevalentemente maschile?
«Io sono sempre stata molto fortunata, perché la Lux è una società con una forte presenza femminile. All’interno del team di Diavoli, per esempio, ero l’unica donna. Per alcuni generi si fa più fatica, ma stiamo facendo grandi passi in avanti».
Qui sotto la foto di Elena Buciacco, sceneggiatrice di Diavoli, di cui domani, alle 21:15, andrà in onda su Sky Atlantic l’ultima puntata, visibile in streaming su Now Tv.
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