Django Unchained, intervista esclusiva a Kerry Washington: «La scena della frusta è stata tremenda»
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Django Unchained, intervista esclusiva a Kerry Washington: «La scena della frusta è stata tremenda»

La protagonista femminile del film di Tarantino, l'innamorata che spinge Django a compiere la sua vendetta, ci racconta la sua esperienza sul set, il rapporto con Foxx e quello con il regista

Django Unchained, intervista esclusiva a Kerry Washington: «La scena della frusta è stata tremenda»

La protagonista femminile del film di Tarantino, l'innamorata che spinge Django a compiere la sua vendetta, ci racconta la sua esperienza sul set, il rapporto con Foxx e quello con il regista

Kerry Washington, moglie di Jamie Foxx lo era già stata quasi dieci anni fa. Era il 2004 e i due erano protagonisti di Ray, il biopic di Taylor Hackford dedicato al celebre cantante e pianista statunitense, cieco fin dall’infanzia. Quasi dieci anni dopo, i due tornano a fare coppia sullo schermo per Quentin Tarantino: in Django Unchained la Washington interpreta infatti Broomhilda, la schiava che parla tedesco, moglie di Django, e ragione di vita e di lotta del protagonista. Che per lei non solo rischia tutto, mettendosi sulle tracce del più razzista tra tutti i latifondisti del Sud degli Stati Uniti, ma addirittura arriva a mascherarsi da commerciante di “mandinghi”, gli schiavi lottatori, condannati a picchiarsi a morte per il sollazzo bestiale dei loro proprietari bianchi. È insomma l’Amore, più forte di qualsiasi tensione razziale, che anima il coraggio dell’Eroe – la donna angelicata e il corpo martoriato per il quale vale la pena sacrificare tutto.
Abbiamo incontrato Kerry Washington a San Diego qualche tempo fa, in esclusiva italiana, e le abbiamo chiesto di parlarci del film e del suo ruolo. Alla fine dell’intervista trovate anche una gallery che valorizza la straordinaria bellezza dell’attrice, che dal vivo è quasi abbagliante.

È la seconda volta che reciti con Jamie Foxx, e sei di nuovo sua moglie.
«È vero. Quando ho ottenuto la parte, mi ha chiamata per congratularsi e io gli ho detto: “Facciamolo ogni dieci anni: ci troviamo e lavoriamo con un regista importantissimo ad un film epico, nella speranza di vincere un Oscar”».

In questo momento sei al centro dell’attenzione con due ruoli diametralmente opposti: questo, e quello della protagonista della serie TV Scandal.
«Sono stata l’ultima a scoprire che ci sarebbe stata una seconda stagione di Scandal, perché sul set Quentin voleva tutti i cellulari spenti, in modo che tutti fossimo super-concentrati. La notizia era già su Internet, ma io ero focalizzata sulla mia parte, così i produttori sono venuti da me e mi hanno detto: “Dovresti tornare nella tua roulotte e dare un’occhiata al web”. Quest’anno è stato un viaggio molto complicato per me, a livello artistico, ma anche gratificante. Ha significato molto: per tanto tempo ho pensato che per gli attori afroamericani le opportunità fossero troppo limitate. Per me è stato un privilegio aver interpretato due donne di colore in due epoche opposte per motivi socio-economici e che riguardano il concetto di potere, educazione e libertà. Broohmilda vive una condizione inconcepibile se paragonata a quella di Olivia Pope, che in Scandal è senza dubbio la donna più potente del Paese. Questa per me è stata una grande sfida, e certi giorni è stata davvero dura. Jamie veniva da me e mi diceva “Come stai, Olivia?”, proprio per cercare di portarmi fuori da tutta la brutalità del film».

Nel film sei protagonsita delle scene più terribili e violente: come hai vissuto l’eperienza di girarle?
«Questo film ha trasformato tutti noi, perché nessuno si era mai confrontato in questo modo con la brutalità della schiavitù. Abbiamo avuto il privilegio di girare alcune scene del film in quella che è stata una vera piantagione di schiavi in Louisiana, e in una di queste scene venivo frustata. Farla, sapendo che il suono della frusta riecheggiava in quella valle centinaia di anni fa, è stato tremendo. In quei giorni sul set suonava molta musica, tra cui il gospel, che era così stimolante per lo spirito umano. E per me il personaggio di Jamie è un eroe che nasce dalle profondità dell’inferno, quindi tutti noi dovevamo avere il coraggio di sprofondare all’inferno perché il suo eroismo avesse un senso».

Come si concilia la visione “pulp”, barocca, citazionista di Tarantino, con questo tipo di analisi storica?
«Quentin non è un regista che fa un film perché possa piacere a tutti, è un vero visionario e racconta le storie che pensa valgano la pena di essere raccontate. La cosa importante, per me, era l’idea che finora non ci siamo mai veramente immersi, cinematograficamente parlando, nella brutalità di quello che la gente chiama “il peccato originale americano”, ossia l’istituzione della schiavitù. Poi arriva un regista che non è affatto intimidito dal gore, da tutto il male che pervade l’animo umano, dal sangue, dalla violenza, perché li esplora da tutta la sua carriera. E io ho pensato che sarebbe stato interessante. Il centro di tutto è il fatto che lui ha preso due persone e le ha collocate in un sistema che è stato creato con l’idea di distruggere le famiglie di colore, un contesto in cui i neri non potevano sposarsi legalmente, e in ogni momento tuo figlio ti poteva essere portato via. Quindi abbiamo a che fare con un sistema in cui l’amore e la famiglia, per certe persone, non sono ammessi. Quentin ha scritto la storia di due innamorati che credono così tanto nella propria umanità, nel sentimento dell’uno per l’altra, che Django viaggia lungo il Paese fin nelle profondità dell’inferno proprio per rendere onore a questa umanità e a questo amore. Lo trovo incredibile. Non sono una persona a cui piace la violenza, c’erano giorni in cui sul set pensavo “Ancora sangue?!”, ma rispetto la sua visione di regista, e adoro che questo film parli dell’idea che l’amore possa combattere qualsiasi cosa, persino il male di questa terribile istituzione, e che permetta a queste persone di risorgere da una simile brutalità».

Naturalmente Tarantino prima ancora che regista, è amato per le sceneggiature che scrive, e in particolare per i dialoghi inconfondibili.
«Mi è piaciuto molto che lo scrittore del film ne fosse anche il regista. Amo lavorare in televisione perché penso che la storia sia tutto e qualche volta, nel cinema, lo sceneggiatore ha troppa poca importanza, perché il potere sul film lo esercitano il produttore, l’executive di uno studio, le persone che si occupano del marketing, a volte il regista, e spesso la storia si annacqua. In televisione, invece, lo scrittore è il Re, e c’è un senso di autenticità più forte. Ho avuto la fortuna di lavorare con David Mamet e Quentin Tarantino, registi che sono anche scrittori, ed è davvero un dono, si ricordano sempre qual è la cosa più importante. E penso che il nostro film voglia rendere omaggio al concetto stesso di Storia, perché la storia del mio personaggio, Broomhilda, è ispirata a quella di Sigfrido e Brunilde, su cui poi si basa L’anello del Nibelungo di Wagner. Quindi abbiamo voluto mantenere il riferimento anche ai miti di antica tradizione».

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