Edgar Wright non è certo un regista qualunque, per l’economia del cinema pop di oggi: l’autore della trilogia del cornetto è un consapevole e spassoso funambolo della contemporaneità, un english guy con licenza di sporcarsi le mani con un’ironia esplosiva e scorretta. Un ragazzo che di british, al massimo, può rivendicare la sfrontata leggerezza di partenza. Una qualità tuttavia impagabile, che ha permesso a Wright di diventare uno dei più interessanti registi di culto dei nostri tempi, di mescolare i generi con la vitalità e la libertà coinvolgente del più sincero degli appassionati. La sua carriera ha preso il via con una parodia degli spaghetti western, per rendere l’idea, A Fistful of Fingers, per poi spiccare il volo con L’alba dei morti dementi, fusione di horror e commedia e primo capitolo del già citato trittico con protagonista Simon Pegg, completato da Hot Fuzz e La fine del mondo e intervallato da Scott Pilgrim vs. the World.
Se si nomina di sfuggita l’amico George Romero, Edgar Wright si irrigidisce e tradisce un po’ di commozione e di evidenti occhi lucidi nel ricordare il mentore da poco scomparso, punto di riferimento di tutto il cinema che ha ispirato Wright e il suo immaginario, ben oltre l’esplicito omaggio di L’alba dei morti dementi. Ma il focus principale ovviamente non può che essere tutto sul suo nuovo film, Baby Driver, eccitante fusione di action, commedia, romanticismo e corse automobilistiche che Wright è passato a presentare a Roma alla stampa italiana in un hotel della capitale, poco prima di volare a Venezia, dove sarà giurato del Concorso dell’edizione n° 74. Protagonista uno James Deen 2.0, Ansel Engort, giovane pilota con un numero imprecisato di occhiali da sole, un talento mostruoso nella guida e un auricolare ininterrottamente conficcato nelle orecchie. E tanta, tantissima musica sempre al seguito.
Baby, il protagonista, è una summa dei personaggi dei tuoi film precedenti, ma rispetto alle altre tue creature è più consapevole della realtà in cui si trova.
In un certo senso sì, ma non del tutto. In vari film ho affrontato il tema del diventare grandi, ma qui abbiamo un personaggio che va in cerca essenzialmente di normalità. Ciò lo rende diverso dagli altri miei film, in cui qualcuno faceva un percorso per diventare un protagonista con la P maiuscola, a tutti gli effetti.
I finali sono sempre un punto di forza dei suoi film, nella loro imprevedibilità. La chiusura di Baby Driver è più convenzionale, gioca più sul sicuro. C’erano diverse versioni o l’idea che avevi in mente non è mai cambiata?
[SPOILER] Il finale è sempre stato lo stesso fin dall’inizio. La differenza è che qui c’è un finale forse più moralista, ma inizialmente gli studios volevano un finale in cui potesse Baby potesse farla franca. Io, invece, volevo una soluzione meno irresponsabile e ho detto di no con tutte le mie forze alla loro proposta. Ho tratto ispirazione anche dai film americani degli anni ’30, i gangster movie, dove c’è un finale per così dire morale, non certo moralista, che non è la parola giusta. Perché in fondo mi sono sempre chiesto: ma cosa accade nei quindici minuti successivi a quell’ultima inquadratura? In molti film classici questa risposta non è mai nemmeno suggerita.Una domanda un po’ scomoda: quali membri del cast di Baby Driver gli hanno dato più problemi, e quali meno?
So che la mia risposta non è quella sperata, ma sono stati tutti straordinari. A volte con i grandi nomi ti ritrovi a fare solo dei cammei, qui invece tutti questi grandi attori erano tutti insieme nella stessa stanza. Le scene in cui tutti si divertivano a terrorizzare Baby erano quelle più entusiasmanti. Quando inquadravamo Jamie Foxx e Kevin Spacey dicevo sottovoce al mio direttore della fotografia che avevamo un’inquadratura con due premi Oscar presenti. Attori di questa grandezza si stimano tra di loro: quando Jamie non era in scena e Spacey faceva un monologo il primo si metteva in un angolo, faceva finta di mangiare i popcorn o di essere lì per caso ma in realtà si godeva quanto accadeva sul set come fosse uno spettatore, e viceversa. A volte capitava anche a me, di avere momenti in cui mi estraniavo in questo modo godendomi lo spettacolo, ma poi mi toccava subito riprendere i miei panni di regista!
Vista l’esperienza di Scott Pilgrim vs. the World, sarà possibile fare un sequel di Baby Driver a fumetti?
Perché no, è un’idea interessante anche se richiede tantissimo tempo. Io e Simon Pegg abbiamo sviluppato qualcosa del genere partendo dagli zombie, è un progetto che stimola la scrittura creativa, ma anche molto faticoso.
Il tuo lavoro implica un certo grado di anarchia quando mescoli i singoli generi, ma anche tanto controllo. Questa è un’epoca in cui parla molto di studios in rapporto alla libertà concessa agli autori, visto che nuove piattaforme mettono in discussione il rapporto tra regista e produttori garantendo libertà un tempo impensabili.
Questo è il mio primo film con la Sony, gli altri erano stati fatti con la Universal (spesso, nonostante ciò, vengo definito comunque un regista indipendente). La mia anima anarchica si è evoluta nel corso di questi cinque film e Baby Driver è probabilmente un film mainstream, volendo usare quest’espressione, ma di sicuro ci sono degli elementi idisioncratici che rimandano ai miei film precedenti, un po’ come il cavallo di troia: elementi cult in una confezione più commerciale. Scott Pilgrim vs. the World non è andato benissimo, ma per molti è un oggetto di culto assoluto. Il pubblico generico è rimasto perplesso, la persona media non capiva nulla dal trailer, ma magari a certe cose ci si arriva dopo. In questo caso avevamo capito che il film potesse funzionare su entrambi i livelli. Alcuni registi dicono: questo film lo faccio per me, quest’altro per gli studios. Io ho fatto Baby Driver per entrambi. Ci metto molto tempo a fare un film, perché scrivo anche la sceneggiatura, ma vorrei tanto fare più in fretta. Tutti i film che ho fatto però li ho realizzati per amore dei generi cui ho messo mano, con in più, ovviamente, la mia visione personale.
A proposito di amore per il genere: puoi parlarci dell’investitura di Walter Hill nei tuoi confronti?
Sono un grande ammiratore del film Driver – L’imprendibile, tra tutti i lavori di Walter Hill. Ho avuto il privilegio di diventare suo amico, nel corso di un incontro con il pubblico gli ho anche espresso la mia ammirazione. Si rifiutò di venire a una delle anteprime di Baby Driver, volle pagare il biglietto al cinema il primo giorno, ho provato a convincerlo in tutti i modi che non volevo affatto che lo facesse ma non c’è stato affatto verso di fargli cambiare idea. C’è un cameo vocale nel film, una delle ultime voci che si sentono è la sua: un omaggio dovuto perché sono un suo grande ammiratore. Quel film mi rimase tatuato addosso come un film di grande impatto, consiglio sempre a tutti quelli che non l’hanno visto di andarlo a vedere. Hill mi ha anche telefonato per farmi i complimenti: non poteva esserci battesimo migliore per la prima di Baby Driver.
Il film è coreografato così bene che non si capisce se sia venuto prima la coreografia della scena e la messa a punto dei singoli movimenti o la scelta della musica (torrenziale, bellissima) che l’accompagna.
Un po’ di tutte e tue le cose, ma senza avere i brani giusti non riuscivo a scrivere. Quindi prima di passare alla scrittura vera e propria avevo già deciso i brani che l’avrebbero caratterizzata, il che ha significato che alla prima stesura della sceneggiatura la colonna sonora al 90% c’era già, su carta. Poi sono arrivati lo storyboard e le prove, con tutti quanti – cast, stunt, troupe – messi lì ad ascoltare davvero i brani durante le riprese. Le canzoni non venivano dopo in una sala di montaggio, erano già con loro, in modo che gli attori potessero sentirle durante le riprese delle singole scene. Avevano gli auricolari sul set e le battute spesso venivano scandite sulla base del ritmo dei brani, coi loro pieni e i loro vuoti.
Quale sarà il tuo lavoro come giurato alla prossima Mostra del cinema di Venezia, che sta per partire?
Sono stato in passato a Venezia, ma mai alla Mostra del cinema. Ho ricoperto il ruolo al Sundance due anni fa e come giurato mi diverte poter vedere dei film che non andrei a vedere al cinema normalmente, o che non potrei vedere. Cercherò di essere oggettivo, ma ciò che mi interessa molto è vedere dei film insieme al pubblico che magari non verranno mai più visti da una grossa fetta di spettatori sul grande schermo. A Londra, per esempio, c’è un certo interesse per il cinema straniero che nella capitale inglese circola molto, ma a Los Angeles molto meno, per esempio.
Il rapporto con gli altri giurati è anche politico. Bisogna battersi per far vincere i film che si preferiscono e che magari agli altri membri della giuria non sono piaciuti affatto. Conosci già alcuni dei tuoi compagni di giuria di quest’anno?
Al Sundance era tutto semplice. Si votava, se c’erano degli ex-aequo se ne discuteva ma con la massima tranquillità. Nessuna grande litigata, ma si cercava di dare riconoscimenti a più film in modo che non ci fosse un asso pigliatutto. Essendo però solo la mia seconda esperienza non avrò particolari pretese, sarò semplicemente lì a godermi i film.
Ultima domanda: cos’è andato storto, davvero, con la Marvel a proposito di Ant-Man, progetto su cui hai lavorato molto e che infine non hai più fatto?
Facile rispondere: in quella situazione ero molto orgoglioso della sceneggiatura ma non ho avuto modo di fare il film che volevo fare. Lasciare è stata una decisione difficile, perché ci avevo lavorato davvero tanto. Fino ad allora avevo sempre fatto la regia dei film di cui avevo scritto la sceneggiatura, o da solo o con altri, è stata durissima mollare ma ho fatto la cosa giusta. Mi spiace più che altro per il tempo sprecato, ma è andata bene così alla fine. All’epoca pensavo che facendo Ant-Man poi avrei potuto girare Baby Driver con più facilità, ma ironia della sorte non ho fatto il primo e il secondo è finora il mio miglior incasso (100 milioni di dollari incassati a fronte di un budget di 40 e un incasso destinato a crescere, ndr). Quindi tutti contenti, direi!
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