Intanto questo: Breaking Bad raccontava fin dal titolo il percorso di progressiva dannazione di un uomo che, per ribellarsi a una vita mediocre e sfortunata, cercava (e trovava) la propria grandezza nel crimine. Ecco, sarebbe eccessivo rititolare El Camino, da pochi giorni disponibile su Netflix, “Breaking Good”, ma resta il fatto che la parabola di Jesse nella serie è simmetrica a quella di Walter White, e questo sequel non fa che portarla alle estreme conseguenza, instradandolo verso un futuro più tranquillo (vagheggiato negli splendidi flashback che punteggiano il film).
È un ribaltamento che comporta una perdita di pathos e soprattutto l’azzeramento dell’ambiguità che ha fatto grande la creatura di Vince Gilligan. Tra l’altro è anche un ribaltamento del meccanismo di Better Call Saul, altra serie che dimostra le qualità dello showrunner nel sapersi fare carico delle pessime decisioni dei suoi protagonisti, spingendoli piano piano e inesorabilmente dalla parte del pubblico: nonostante tutto.
Ma c’è un’altra ragione per cui El Camino potrebbe lasciare perplesso qualcuno, ovvero la natura perfettamente seriale di questo epilogo di due ore, leggibile solo come una puntata lunga e tardiva dello show, ulteriore esplorazione di un mondo che ha spiegato da tempo le sue ragioni. “Once Upon a Time in Albuquerque” dunque, ancora con le sue strade, i suoi deserti rocciosi, i cavalcavia che offrono riparo a spacciatori e fuggitivi, i misteriosi impiegati della malavita che hanno costruito il proprio mestiere sulle esigenze dei criminali (meraviglioso Robert Forster). E soprattutto il suo carico di ricordi, capaci di emozionare ancora. In vista, finalmente, di un lieto fine, che magari è soltanto un sogno.
È un problema? Ognuno si faccia i suoi conti, ma dubitiamo che il confronto con i film Downton Abbey o Deadwood, pensati con la stessa attenzione nei confronti dei fan di lunga data, possa nuocere alla creatura di Gilligan. El Camino è il crepuscolo di un immaginario e dimostra ancora una volta come ci siano pochi sceneggiatori come Vince, capaci di costruire e alimentare grandi personaggi attraverso le loro parole, prima che attraverso le loro azioni. Poi certo, ci sono anche un paio di sequenze di pura suspense perfettamente congegnate e almeno una scena dolorosissima, direi micidiale (quella in cui Jesse viene trattato dai suoi carcerieri come un criceto in gabbia).
Non sappiamo se sia un addio, magari ci sarà un’altra serie tutta per Pinkman, un’altra vita, altre decisioni. Ma sarà una cosa diversa. Se invece cercate ancora Breaking Bad, è a Saul Goodman che dovete rivolgervi.
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