Elogio della durezza
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Elogio della durezza

Dialoghi imbarazzanti, scene di sesso immotivate e una violenza esasperata hanno fatto de Il duro del Road House con Patrick Swayze un’operazione così scentrata da meritarsi di entrare a pieno titolo fra i classici

Elogio della durezza

Dialoghi imbarazzanti, scene di sesso immotivate e una violenza esasperata hanno fatto de Il duro del Road House con Patrick Swayze un’operazione così scentrata da meritarsi di entrare a pieno titolo fra i classici

Di tanto in tanto, su questa rubrica, torniamo a chiederci cosa sia un classico e possiamo dire di aver stabilito che non sempre un classico è anche, e necessariamente, un film bello, perfettamente riuscito. Spesso un classico è un film che si rivela seminale, o che anticipa i tempi, o che segna un qualche punto importante nell’immaginario collettivo. O ancora, che, pur essendo sbagliato per una o più ragioni, centra comunque un qualcosa di rilevante nel sentire collettivo. Non abbiamo, però, mai esplorato l’idea che una pellicola possa diventare un classico anche se, a conti fatti, è un brutto film, non ha mai trovato un grande successo, non ha lasciato alcun segno nella cultura popolare o nella storia del linguaggio, non ha alcuna caratteristica autoriale a renderlo, in qualche maniera, significativo.

È il caso di Road House (da noi Il duro del Road House), film del 1989 diretto da Rowdy Herrington (lo stesso di Impatto imminente con Bruce Willis) per la produzione di quella vecchia volpe di Joel Silver, con Patrick Swayze, Ben Gazzara, Kelly Lynch e Sam Elliott.

La storia è presto detta: prendendo spunto da un fatto di cronaca, il romanziere e sceneggiatore David Lee Henry (uno che ha iniziato a lavorare nel cinema con Francis Ford Coppola e Charles Bronson ed è finito a scrivere cose per Steven Seagal) concepisce un neo-western dove mancano solo i cavalli e le pistole, tutto incentrato su un buttafuori dal cuore d’oro, ma con il pugno di ferro, che finisce per portare ordine e giustizia (nell’accezione della frontiera) in un paesino di provincia.

La pellicola si caratterizza per una violenza visiva decisamente sopra le righe per l’epoca, per la forte presenza scenica di Swayze, per una scena di sesso assolutamente immotivata sul cofano di una Porsche, per dialoghi come “preparati a morire”, per una scena da mezzo milione di dollari avente come protagonista un monster truck chiamato “Bigfoot 7” e per un Ben Gazzara che ha l’aria di voler essere ovunque, tranne che in quel film.

Uscito nel maggio del 1989, Road House incassa 31 milioni in tutto il mondo, a fronte di un budget di 15. Non un fallimento, ma neanche un successone. Invece, va davvero male con la critica che lo bolla o come un film idiota o come un film pericoloso e idiota. Strano a dirsi, ma la recensione più gentile è quella di Roger Ebert, che lo definisce un film pericolosamente in bilico tra l’essere così brutto da essere bello o, semplicemente, brutto e basta.

Quando, però, l’opera di Herrington arriva nel nascente mercato dell’home video e poi sulla televisione via cavo, il pubblico inizia a premiarla e in una manciata di anni, forse anche per l’accresciuta fama di Swayze, Il duro del Road House conquista una nuova popolarità tanto che oggi gode dello stato di “cult”, ne esiste una sorta di orrido sequel apocrifo (Road House – Agente antidroga del 2006) e Hollywood si prepara a farne un remake (molto più costoso dell’originale) con Jake Gyllenhaal e Conor McGregor (per la regia di Doug Liman).

E qui torniamo alla domanda iniziale: può un film scritto malamente, diretto senza alcuna ispirazione, interpretato in maniera incerta o svogliata, conquistare lo stato di classico pur non avendo alcuna qualità evidente? La mia risposta è sì, se quel film ha alcune qualità non così evidenti ma chiare, come nel caso di Road House.

Prima ho citato la recensione di Ebert, ma ne ho omesso la chiosa finale che adesso vi riporto: “… questo non è un buon film, ma visto con la giusta disposizione d’animo, non è un film noioso. Per niente”. Ed è questo il punto. È stupido, prevedibile, stereotipato, pervaso da una mascolinità tossica, ha personaggi femminili imbarazzanti che agiscono in modo imbarazzante, ha caratterizzazioni ridicole, è inutilmente violento, ha dialoghi improbabili (anche per gli standard dei tardi anni Ottanta) eppure, nonostante tutto questo (o, forse, proprio per questo), Il duro del Road House è un film divertente come pochi altri, un vero western moderno senza alcuna pretesa alta, che punta a intrattenere lo spettatore, riempiendogli la pancia di cazzotti, scene di sesso gratuite, macchine distrutte e carotidi strappate dal collo a mani nude. È un film che da solo rappresenta una categoria (la “white trash exploitation”) e che, oggi come ieri, andando a solleticare le parti più basse del nostro gusto, funziona perfettamente.

Forse non è un prodotto di alto livello ma, come un Big Mac, è pur sempre un classico, difficile da non amare.

3 MOTIVI PER DEFINIRLO UN CLASSICO

  • Un Patrick Swayze all’apice della sua forma fisica
  • Sam Elliott che fa il cowboy moderno
  • L’ottima colonna sonora

© Shutterstock (1), Silver Pictures, Star Partners II Ltd. (3)

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