Honey Boy, il film interpretato e sceneggiato da Shia LaBeouf che sarà nelle sale dal 3 marzo, si apre con una sequenza che sembra uscita direttamente dal set di un film della saga di Transformers, franchise cinematografico che gli ha dato la notorietà: vediamo il personaggio di Otis Lort, alter ego dell’attore che ha il volto di Lucas Hedges, sbalzato via da un’esplosione improvvisa nel bel mezzo di una scena che sta girando. Temiamo subito per la sua incolumità, ma per fortuna a reggerlo ci sono dei fili che ne reggono l’urto e uno stuntman provvede a farlo riemergere da una nube di polvere e caos.
Honey Boy, com’è chiaro fin dal prologo, è proprio la storia di Shia LaBeouf, dal primo all’ultimo minuto: il racconto di una crescita difficile a partire dalle sue esperienze personali di ex bambino prodigio (da ragazzino lo interpreta il giovane Noah Jupe), che esordì nel film Charlie’s Angels – Più che mai e nella serie televisiva Disney Even Stevens, affermandosi immediatamente come teen idol ancor prima che i blockbuster lo chiamassero a sé sotto l’ala protettiva di Michael Bay e Steven Spielberg. Quegli anni, in cui si fa notare come baby star del piccolo schermo, scorrono però di pari passo a un rapporto travagliato col padre James (il cui vero nome era Jeffrey): LaBeouf l’ha voluto incarnare in prima persona, specchiandosi nella controversa figura genitoriale, che così tanto ha segnato la sua esistenza, in maniera sfacciata e coraggiosa.
Durante la sua infanzia l’attore era abituato ad accompagnare entrambi i genitori alle riunioni degli Alcolisti Anonimi. Il padre hippie e tormentato, che arrivò a puntargli una pistola alla testa perché invasato da un ricordo della guerra in Vietnam, lavorava a quel tempo come pagliaccio da rodeo facendo i conti, parallelamente, con una drammatica dipendenza dall’eroina. In Honey Boy (premio della giuria al Sundance e passato alla Festa di Roma), diretto dalla regista Alma Har’el, assistiamo alle giornate di Otis, che quando non è sul set passa il tempo a gestire gli indomabili demoni paterni in un motel ai margini della società, tra intemperanze e abusi ai suoi danni.
Sarebbe difficile immaginare un soggetto di partenza più crudo e privato di così, ma il film ha il merito di non piangersi addosso, di porgere questa vicenda allo spettatore con toccante schiettezza. LaBeouf, com’è noto, si è allontanato da Hollywood in tempi assai precoci rivestendo la sua immagine pubblica di stranezze inenarrabili, esperimenti sociali folli e controversie assortite: dalla visione ininterrotta, per un totale di 3 giorni, dei suoi film in ordine cronologico inverso – organizzata all’Angelika Film Center di New York alla presenza dell’attore ripreso 24 ore su 24 – a performance live contro Donald Trump, passando per arresti per oltraggio a pubblico ufficiale, ubriachezza e condotta molesta.
Honey Boy, scritto da LaBeouf proprio durante una riabilitazione successiva a una condanna, arriva dunque dopo molti anni in cui l’attore ha provveduto a sporcare la sua immagine pubblica a suon di atti discutibili. Il risultato è un sorprendente e spudorato romanzo di formazione borderline, che sa tanto di catarsi, auto-analisi e intimo risarcimento: probabilmente il regalo più bello (e anche più onesto) che l’attore potesse farsi, esattamente a metà strada tra la confessione ed espiazione.
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