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Everything Everywhere All at Once, gli Oscar e il Multiverso che non ci mette mai in discussione. Un commento

Niente di nuovo sul fronte Oscar? Non proprio

Everything Everywhere All at Once, gli Oscar e il Multiverso che non ci mette mai in discussione. Un commento

Niente di nuovo sul fronte Oscar? Non proprio

Everything Everywhere All at Once Oscar 2023

Il trionfo di Everything Everywhere All at Once agli Oscar 2023, salutato e accompagnato da ben 7 Academy Awards – che lo rendono il film più premiato dai tempi di The Millionaire e lo avvicinano ai Big Five come Accadde una notte, Qualcuno volò sul nido del cuculo e Il silenzio degli innocenti – ha fatto e sta facendo storcere il naso a molti. Una reazione sulla quale vale la pena interrogarsi, destinata a un film che, al netto di come la si pensi sull’opera da una prospettiva di gusto cinematografico, è la cartina di tornasole di un presente in cui l’inclusività e la tolleranza produce, per contrasto e anche nel contesto frivolo, ma al contempo politico che sono gli Oscar oggi, nuove e più feroci sacche di intolleranza (perlomeno nella dimensione ombelicale e circoscritta, anche se non è detto che lo sia sempre, di questo tipo di dibattiti). 

Esiste di sicuro un Multiverso, non dissimile da quelli messi in scena dal film, in cui a imporsi agli Oscar è il film che ciascuno di noi riteneva più bello e più giusto, più sensato e ammirevole, come in tanti stanno opportunamente e facilmente ironizzando sui social. E dopotutto il film di Daniel Kwan e Daniel Scheinert (noti come i Daniels), che racconta di una donna asiatica, Evelyn Wang (Michelle Yeoh), che gestisce una lavanderia a gettoni, ha tanti problemi familiari e per un controllo fiscale si ritrova a vivere una sorprendente epopea attraverso le dimensioni quantistiche e le diverse versioni di se stessa, ha sbaragliato la concorrenza di opere più tradizionali, ecumenicamente e classicamente da Oscar come The FabelmansGli spiriti dell’isola e tanti altri, rimasti come tanti altri competitor autorevoli addirittura a bocca asciutta. 

Una presa di posizione perfino radicale, quella dei votanti degli Oscar che, dopo molti anni di Manuale Cencelli e di ripartizione equa e col bilancino dei riconoscimenti tra tutte le parti in causa, quest’anno hanno dato un segnale molto più forte e preciso. Premiando un film che, preso come dispositivo culturale e semiotico calato nella contemporaneità, ci invita sicuramente a rivedere le nostre certezze, a ridiscutere non tanto la nozione di “film da Oscar” ma soprattutto quella di noi come spettatori, osservatori del mondo e dell’attualità attraverso la lente dei film e del cinema (fuori, si spera, dalle angosce sentenziose della cinefilia), appassionati di cinema fantastico: infiniti “io” annegati e polverizzati nel mare magnum della frammentazione e della dispersione del sé che caratterizza il tempo che viviamo e che in fondo è lo stesso scenario – terrorizzante, vertiginoso, eppure elettrizzante e saturo di innumerevoli tentazioni per ritrovare come per perdere se stessi – che Everything Everywhere All at Once spalanca alla sua protagonista.

Nell’agone delle idee, molti sembrano ancora cercare il Multiverso che non li metta mai in discussione (ben vengano invece le letture degli attivisti del fat liberation su The Whale, per esempio, che arricchiscono il confronto purché non prescindano radicalmente dall’analisi della testualità del film), che riporti per forza le cose le lancette della Storia a dieci o vent’anni fa, quando una mini-major sperimentale e ondivaga ma cruciale come la A24 non avrebbe mai potuto guadagnare una simile ribalta. Specie con un film così ibrido nel linguaggio e nella forma, votato a coniugare il balsamo del demenziale, delle arti marziali e dell’autoriale, a intavolare un Multiverso in cui – perché no – John Landis, le sorelle Wachowski e Wong Kar-wai possano convivere tra un colpo al cuore e un assalto al corpo, non importa se organicamente (da un punto di vista di spirito del tempo, non di giudizio critico sul singolo film, che resta un altro terreno dialettico, da maneggiare nella maniera auspicabilmente meno asfittica possibile). 

Perché quel conta, in questo caso, è appunto che esista la possibilità di un azzardo in grado di far saltare il banco, di un orizzonte improbabile e stridente. Lo stesso che ha portato attori che fino a meno di un lustro fa a quella cerimonia non sarebbero stati nemmeno lontanamente presenti (nemmeno nella platea del Dolby Theatre) a vincerlo addirittura, un Oscar: vale anche per Brendan Fraser e Jamie Lee Curtis, un pacioso alfiere dell’avventura a cavallo tra i millenni e la scream squeen, non solo per gli asiatici. Senza contare che anche Michelle Yeoh e Ke Huy Quan, guardando oltre la valorizzazione delle etnie marginalizzate, sono anzitutto una delle più grandi dive action della storia del cinema e un ex attore bambino di Indiana Jones e de I Goonies sparito dalle scene, che ha abbracciato Harrison Ford esattamente come l’avrebbero abbracciato molti di noi se lo fossero trovato davanti la notte scorsa. 

Everything Everywhere All at Once è dopotutto esso stesso tutto e il contrario di tutto, un abbraccio madre-figlia in grado di erigere da zero una cosmogonia tutta nuova di stili e immaginari, un inno alla segmentazione anarchica delle energie, un oggetto pop inclassificabile. Un elogio del Multiverso che, a saperlo abitare e accogliere (non è facile, va detto), può anche risultare il salvacondotto ideale per uscire dalle tifoserie e dalle appartenenze e abbracciare una complessità squinternata e benefica capace di metterci a soqquadro e scompaginarci, a prescindere – vivaddio – che la nostra sentenza finale sia all’insegna dell’ammirazione o del disgusto, dell’eccitazione o del disprezzo.

Foto: A24 

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