Il Far East tiene duro. La crisi, qui, si vede nelle piccole cose: le sdraio e gli ombrelloni nel piazzale davanti al Teatro Giovanni da Udine – salotto a cielo aperto nella casa del Festival – sostituiti quest’anno da sedie di plastica colorata; il corredo scenografico minimale nel foyer, assai più sobrio del solito; qualche postazione in meno in sala stampa. Non aiuta nemmeno il tempo, che sceglie giorni duri, di vento e pioggia, per incorniciare il primo weekend. Sarebbe un problema se non fosse che l’anima del Far East era e resta l’entusiasmo, la passione vera di chi lo organizza e tutela – anche a fronte di tagli del finanziamento pubblico sempre più limitanti – e naturalmente di chi lo segue. Un entusiasmo che ha dato vita al Festival quindici anni fa e lo mantiene fresco e vitale, come si conviene ai “teenager”. Siamo allora felici di notare, presenti come ogni anno qui a Udine, che l’edizione del 2013 non solo è ricca di proposte quanto gli altri anni, ma anzi sancisce il ritorno in grande stile del cinema horror, che l’anno scorso aveva latitato (domani sera verrà proiettato l’ultimo lavoro di Hideo “The Ring” Nakata, e ve ne parleremo). Manca forse il grandissimo autore, il nome universalmente noto anche ai non “orientofili” (d’altra parte i nuovi film di Takashi Miike e Johnnie To se li è presi Cannes, niente meno…), ma la pattuglia è comunque nutrita, e copre ogni genere e ogni budget.
Cominciamo allora con il raccontarvi i primi due film cui abbiamo assistito. A Werewolf Boy è la risposta sudcoreana ai fantasy-romance occidentali, da Twilight in giù. Una madre vedova si trasferisce con le due figlie in una cascina di campagna. Qui trovano un ragazzo che si nasconde tra i capanni, abbandonato a se stesso, selvaggio come un cane randagio, capace solo di grugnire e ululare. Come si intuisce dal titolo, l’ospite inatteso si rivelerà presto un licantropo. È interessante vedere come tematiche simili, sviluppate per la stessa platea young adult, vengano trattate in Oriente e Occidente in modo opposto. A Werewolf Boy è sviluppato a tutti gli effetti come una commedia romantica; la figura del ragazzo licantropo è pressoché priva di qualsiasi coolness, anzi si insiste sui lati grotteschi di un teenager che si comporta come un cane. Eppure da questo quadretto surreale e un po’ bislacco, la trama romantica si sviluppa in modo naturale e a tratti perfino toccante. Nell’ultima parte il tono cambia, virando al thriller e al dramma, quando si scoprono le origini del ragazzo ed entrano in campo i miltiari e uno scienziato che la sa lunga. Tutto macchiettistico e abbastanza prevedibile, ma con un’onestà e una naturalezza di fondo cui i film della Saga pop più amata e copiata in Occidente raramente si avvicinano.
Ancora più bello, a tratti straordinario, The Last Supper, dramma storico che è inevitabile definire shakespeariano (Macbeth), ambientato nell’antica Cina imperiale (200 anni prima di Cristo). Racconta in flashback la nascita della Dinastia Han dalle ceneri della Dinastia Qin. Senza scendere in dettagli e perdersi tra nomi cui è difficile fare l’orecchio, diciamo che il film è tutto narrato in flashback dal letto di morte dell’imperatore Liu Bang, colui che appunto mise fine alla Dinastia Qin. Un uomo malato, tormentato dagli incubi e dai dolori, folle, il cui potere viene ormai gestito in modo arbitrario dalla moglie, a sua volta divorata dal rancore per essere stata in passato messa da parte in favore di una concubina. Partendo dalla consegna di una testa mozzata, scopriamo a ritroso l’origine del suo potere e come Liu Bang, sospinto alla gloria da fortunate coincidenze e dalla lealtà dei suoi alleati, abbia invece tradito via via tutti coloro che lo circondavano, familiari, generali e consiglieri, consegnando la sua Dinastia nascente ad un’eredità di odio senza senso. Una riflessione sulla Storia (e su come questa venga sempre scritta e tramandata a proprio piacimento dai vincitori), illuminata da una regia capace di estremo lirismo (piena di echi di Kurosawa) e da una scrittura che attraverso i piccoli dettagli valorizza l’umanità dei protagonisti e la natura ironica del Destino.
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