Arriva nelle sale a partire dal 20 maggio Morrison, il quarto film diretto da Federico Zampaglione e liberamente tratto dal suo romanzo Dove tutto è a metà, scritto insieme a Giacomo Gensini e pubblicato da Mondadori. Una storia di vita, amicizia e speranza, che mette a confronto due vite diverse ma legate dalla grande passione per la musica: quella in rampa di lancio di Lodo, giovane e pieno di grandi sogni da dividere con la sua band, interpretato da Lorenzo Zurzolo (visto in Baby e Sotto il sole di Riccione), e quella ammaccata e un po’ appassita di Libero Ferri, un’ex rockstar in cerca del grande rilancio, interpretato dall’attore Giovanni Calcagno.
Dopo l’esordio col grottesco borghese di Nero bifamiliare, l’horror politico di Shadow e il cinema di genere puro di Tulpa – Perditi mortali, dove si respirava a pieni polmoni la passione di Zampaglione per l’horror sanguigno e per i b-movie erotici ed efferati, otto anni dopo il suo ultimo lungometraggio il cantautore e frontman dei Tiromancino torna al cinema. Dopo essersi rimesso in moto, durante il lockdown, con i cortometraggi horror Bianca (ve ne parlavamo qui) e Bianca Fase 2: lavori casalinghi che omaggiavano i gialli di Dario Argento, girati in iPad e realizzati in chiave familiare con la compagna, l’attrice Giglia Marra, di ritorno anche nel cast di Morrison, e la figlia Linda.
Il Morrison del titolo è un locale galleggiante, molto romano, ormeggiato sul Tevere. Lodo si esibisce con i MOB, una band indie, in questo luogo-chiave della scena musicale capitolina, dividendosi tra le difficoltà dei vent’anni, il difficile rapporto col padre e il tentativo di conquistare Giulia (Carlotta Antonelli), la sua coinquilina, di cui è follemente innamorato. Un giorno, casualmente, la strada di Lodo incrocia quella di Libero, artista dalla carriera ormai in stallo, che cerca di ritrovare il successo ma finisce per chiudersi sempre di più in se stesso, trascurando la moglie Luna (Giglia Marra) e vivendo isolato nella sua lussuosa villa piena di ricordi.
Zampaglione ha girato il film, che vanta due camei tutti da scoprire dei colleghi e amici Ermal Meta e Alessandra Amoroso, in pieno lockdown, con delle ovvie complicazioni sul set legate alle norme anti-contagio che, a suo dire, hanno reso tutto «ancora più macchinoso e pieno di difficoltà». Nel raccontarci il film, però, emerge da parte sua soprattutto il desiderio di condividere col pubblico un coming of age personale e sentito, ambientato nel mondo e nel microcosmo che conosce meglio. I bozzetti che potete ammirare, a intervallare l’intervista che segue, li ha disegnati lui stesso, e somigliano a studi di inquadrature mirati al tratteggio e alla sincerità istantanea degli stati d’animo («Sono utili anche per far capire immediatamente ciò che vuoi sul set, i punti in cui si dovrà collocare la macchina da presa sono subito chiari», dice Zampaglione).
Cosa ti ha portato a realizzare un film come Morrison? È evidentemente molto diverso dai thriller e dai film di genere che hai girato in passato, e una virata personale (e sul personale) non indifferente.
In realtà sento di non aver fatto nulla di mia volontà, è questo film che è voluto nascere a tutti i costi. Più persone mi hanno detto che i personaggi del libro si sarebbero prestati bene per un lungometraggio, che sarebbe stato bello vederli sullo schermo. Al film ho iniziato a lavorare durante il primo lockdown e ho scelto di girarlo in periodo di coprifuoco, con addosso la paura del Covid. Ma mi sentivo, in quel momento, di fare quest’atto di coraggio, come d’altronde lo è uscire in questa fase. Quando fai l’horror devi pensare solo a delle situazioni che mettano a disagio lo spettatore, qui invece ho spaziato dal dramma alla commedia, per certi versi è come una canzone dei Tiromancino, ma in un’altra forma.
È una storia che parla di due diverse generazioni mettendole sullo stesso piano, una accanto all’altra, con un’idea di dialogo che non cerca, per una volta, la frattura a tutti i costi. Non solo due musicisti, ma anche un ragazzo e un padre.
In Morrison c’è tanto di me e mi piaceva l’idea di raccontare un confronto generazionale. Il mondo fatto dai ragazzi ha le sue dinamiche, e quando va a intrecciare quello degli adulti le cose si complicano, la posta in gioco sul tavolo cambia e, nel bene e nel male, s’incasina. Il Morrison del titolo è la sintesi di altri mille locali in cui io stesso ho suonato in tutta Italia, passando attraverso i sogni sbilenchi che sono nel film e di cui mi sono nutrito. Ci sono passato pure io, inevitabilmente. Non volevo fare però un film sulla musica, ma con la musica, che esaltasse l’umanità, i sentimenti, i sogni, le, delusioni, le cadute, il rialzarsi, l’amicizia, l’amore. Un racconto che, se provassi a immaginarlo e ricollocarlo in un altro contesto lavorativo, non cambiarebbe di una virgola.
Nel cast valorizzi dei giovani attori, a cominciare da Lorenzo Zurzolo e Carlotta Antonelli, nei quali s’intravede da qualche anno la brezza di novità di un nuovo star system italiano, rigorosamente teen.
Ho voluto evitare i soliti attori e i cast che vedi sempre in tantissimi altri film, perché francamente un po’ m’annoio a guardare sempre le stesse facce. Volevo una carrellata di volti freschi, e ho puntato su Lorenzo Zurzolo per il ruolo del protagonista, Lodo, perché come ragazzo e come attore è davvero interessante. Mi sentivo di poter scommettere sulla profondità della sua recitazione, ha un volto che emana grande dolcezza e malinconia. Oltretutto ha scritto e cantato una canzone, Sotto, appositamente per il film, e lui e tutti gli altri ragazzi della band si sono affezionati al brano, già sul set coltivavano il desiderio di farlo esplodere e portarla in giro come fosse un manifesto specchio del loro tempo. Il personaggio di Carlotta e il modo in cui lei l’ha restituito sono poi molto interessanti, Giulia è una ragazza per certi versi impenetrabile, e tale rimane all’interno del racconto, fino alla fine.
Che personaggio è per te Libero Ferri? Lo racconti come uno di quegli artisti che hanno assaporato un grande successo per breve tempo e con altrettanta violenza e rapidità l’hanno smarrito. Il titolo della canzone che gli metti in bocca, Di sale e di fuoco, dice tanto, e sa tanto di one hit wonder. E mi sa che in tanti ci si rivedranno, se guarderanno il film.
Come personaggio avevo bisogno di un uomo che, pur avendo fatto molte cazzate nella vita, suggerisse agli spettatori un’empatia di fondo. Il pubblico doveva sentire di poterlo perdonare, un po’ come se fosse un bambino. Non ti arrabbieresti mai fino in fondo con un bambino ingenuo che rimane chiuso in un grande villone, dopotutto. Libero Ferri è un animale strano, uno di quelli che non fanno le cose con cattiveria ma agiscono senza ragionarci: un istintivo, trasportato dalla vita. Ed è vero, porta il film verso una dimensione più storta e drammatica. Ne ho incontrati tanti, come Libero Ferri.
Giovanni Calcagno, che lo interpreta, è un attore che “suona” istintivamente azzeccato per il ruolo. Come l’hai scelto?
L’avevo visto di recente ne Il traditore di Bellocchio, ha un volto davvero incisivo, ha fatto tanto cinema e teatro. Però non aveva mai suonato, gli ho fatto studiare diteggiatura e pianoforte perché per la parte era necessario farlo, ed è stato davvero una sorpresa. In una scena fa un assolo di chitarra che è tutta farina del suo sacco, e non era scontato: quando lo senti ci credi davvero, a quel riff. Mi aveva colpito già al momento del self tape che mi aveva mandato: pur essendo lui siciliano, mi ha mandato un provino con un accento a metà tra l’emiliano e il lombardo. Quando gli ho chiesto il motivo di questa cosa, che a me sembrava solo uno strano scollamento, sentendolo poi parlare siciliano, mi ha risposto che il personaggio se l’era immaginato così, vagamente del nord. Sono intuizioni che come regista mi piacciono, vuol dire che il personaggio, in qualche modo, te lo sei ingegnato, e l’hai fatto da solo.
Ti piace come viene messa in scena la musica, di solito, nei film?
Dipende. In un film come Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line vedo Joaquin Phoenix nei panni di Johnny Cash e rimango strabiliato, anche per l’esecuzione dei momenti musicali, mentre tanti altri film sulla musica li guardo e dentro di me mi metto a ridere. Vedo cose che mai – e credimi, mai – potrebbero accadere su un palco nella realtà, ti accorgi benissimo che nessuno sta suonando davvero. Terribile, come quando guardi un film sul tennis e vedi che l’attore nella realtà non saprebbe nemmeno tenere in mano una racchetta. In generale a me, a prescindere dalla tecnica, piacciono le cose genuine e sanguigne, gli attori di pancia. Cerco sempre le sporcature, le cose “de core”, anche nella mia musica. Non i tecnicismi della voce o gli aspetti troppo mentali. L’idea è sempre quella di arrivare prima al cuore che alla testa.
Avrai avuto anche tu una band giovanile, e un po’ scalcagnata, come quella del film, anche prima dei Tiromancino.
Assolutamente. Infatti per Morrison volevo dei ragazzi che restituissero in modo credibile quell’energia, i piccoli equilibri dei gruppi che esordiscono nei primissimi concerti ma anche le loro incertezze: la vita nella band, le insicurezze, la voglia di emergere, il legame tra i componenti. È il periodo in cui sogni di esibirti il venerdì sera ma ti lasciano a suonare il mercoledì sera e rosichi, una sera hai la sensazione di aver suonato malissimo e la sera dopo vuoi suonare meglio e spacchi tutto. Da un lato hai grandi sogni e dall’altro, magari, uno scarso controllo pratico delle cose, che devi sviluppare, e che in quel momento ancora ti condanna. In ogni caso anch’io ho avuto momenti in cui ho realizzato grandissimi successi e altri, meno a fuoco, in cui le cose non giravano proprio.
Come li hai vissuti?
Posso dirti che a me il successo per il successo non piace, anzi mi fa anche abbastanza schifo, in tutte le sue forme. La realizzazione non può coincidere col successo, ma col fare qualcosa che ami, e nel portarlo avanti. Io non l’ho mai inseguito, il successo, mi sentirei come inquinato ad andare in sala di registrazione pensando a un prodotto da studiare a tavolino perché piaccia al pubblico. Quello viene sempre dopo, non può essere il punto di partenza della ricerca.
Ci sono altri riconoscimenti oltre il successo?
Il riconoscimento massimo dev’essere la passione che ci metti a fare le cose, non il successo. Io ho iniziato a fare musica solo perché amavo suonare, anche davanti a venti persone, perché i miei idoli era Eric Clapton e Mark Knopfler, non per arrivare primo in classifica. Se poi ci arrivi, chiaramente, ben venga, ma devi pensare prima di tutto a raccontare qualcosa di tuo. I racconti sui cantanti vincenti non mi piacciono nemmeno al cinema, specie quando all’inizio erano dei poveracci e poi ci sono le copertine dei giornali, immancabili, che scorrono velocissime sullo schermo una dietro l’altra, facendoti vedere solo primi posti in top ten e ricompense.
Quest’autenticità le nuove generazioni di musicisti te la riconoscono, visto che, pare, sono in tanti a vedere in te qualcosa a metà tra un padre, un fratello maggiore e, a tutti gli effetti, un precursore dell’indie sdoganato a mainstream di oggi. Penso a Gazzelle, col quale hai scritto la tua Cerotti, che è nella colonna sonora di Morrison e in cui si sente bene la sintesi tra il tuo modo di cantare e la sua impronta nello scrivere i testi, e a Franco 126: con lui è appena un uscito un feat., Er musicista.
Se penso a loro due, e anche a Calcutta, vedo ragazzi molto in gamba, una nuova generazione di cantautori davvero interessante. Cerotti è una canzone stropicciata e senza filtri, che sa di notti insonni e cuori graffiati, un po’ come il film. Abbiamo scritto il brano prima di iniziare a pensare a Morrison, ma quando ho cominciato a girare mi è sembrato perfetto per raccontare lo stato d’animo dei personaggi. Nelle canzoni di tutti loro si sente che non ci sono mistificazioni, che non usano i termini di moda e gli hashtag a caso, solo perché ci devono stare. Fanno gli elenchi, che si usano molto nel pop di oggi, ci sono belle immagini, ma sono sempre autentici. Evidentemente riconoscono in me questo tipo di natura, che poi è semplicemente la volontà di scrivere delle canzoni che ti rappresentino.
Per il nuovo it-pop italiano si parla spesso di “pop cinematografico”, e sono in molti a prendersi volentieri questa definizione. L’ultimo album di Franco 126 si chiama addirittura Multisala e sicuramente ti ci rivedi anche tu, che in Finché ti va, l’anno scorso, cantavi: «Io e te, tanto il resto è tutto un cinema di scuse».
Sai, le parole da usare per la musica, un po’ come le immagini per il cinema, devono arrivare sempre alla sintesi. Non puoi esprimere un concetto con cento parole nel testo di una canzone, devi riuscire a scegliere le poche parole giuste, magari – si spera – in modo anche poetico. L’indie di oggi lo fa molto bene, ma anche certo rap. I testi di Gazzelle hanno delle immagini nitide, ma anche molto crepuscolari. Sono canzoni dove si vedono le cose come fossero davvero le scene di un film, brani in cui c’è uno stato d’animo di fondo che li accomuna. Questo poi è un tempo particolare, indefinito. Franco per esempio lo vedo e percepisco dentro di lui un sentimento molto strano, che però non esclude l’ottimismo, che non si rinchiude nel pessimismo e cerca, in ogni caso, una via d’uscita. Multisala, il suo ultimo album, è molto bello, uno dei migliori usciti in Italia negli ultimi anni per quanto mi riguarda, e lui possiede una malinconia molto marcata, che definirei urbana.
Nel senso che Roma c’entra sempre, come ai tempi tuoi e della “scena romana” di Gazzé, Silvestri e molti altri?
In generale nei suoi testi la città è uno spazio che schiaccia e confonde, con le sue luci, le attrazioni, e ovviamente anche le storie d’amore. C’è un’idea di romanità persa in una dimensione metropolitana, ma anche la voglia di svegliarsi la mattina e andare avanti, che non è disperazione ma è consapevolezza, voglia di sedersi e mettersi a cercare le cose. Roma chiaramente è una città un po’ storta, pesante, in cui ti devi fare una corazza. I romani ti guardano e ti giudicano, difficilmente ti aiutano, anche se Roma possiede un’energia che si sprigiona soprattutto nelle ore notturne, e che asseconda un certo tipo di canzoni.
Citi spesso Lucio Dalla e Franco Califano come tuoi maestri. Sono presenti, in qualche modo o da qualche parte, in Morrison? Anche una frase, o un dettaglio nascosto.
Nel personaggio di Libero Ferri c’è un po’ di tutti coloro che ho conosciuto, anche un po’ di me. Lucio Dalla una volta mi disse: «Mettila a terra l’energia, non verso il pubblico», ed è una frase che è finita nel film. Come accade al personaggio di Lodo quando gliela dice Libero, all’epoca non la capii più di tanto. Ma mi rimase in testa, e quando un giorno decisi di mettere in pratica quel consiglio in un concerto mi resi conto era tutta un’altra storia. E, per la prima volta, mi sono lasciato l’ansia alle spalle.
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