Lo straordinario esito al botteghino di Bohemian Rhapsody, complice la pandemia, sembra lontano come diverse ere giurassiche, eppure Stardust di Gabriel Range, racconto del viaggio esistenziale di un David Bowie ventiquattrenne, arriva un po’ controcorrente in un momento storico in cui il biopic musicale sembrava aver trovato nuova linfa dalle possibilità spettacolari fornite da artisti iconici e bigger than life (tanto nella concezione delle proprie maschere e di un’idea totale dello show biz, quanto nel posto occupato nel cuore dei fan senza grandi distinzioni di anagrafe e gusto).
Rispetto al film con Rami Malek su Freddie Mercury e al rutilante e di poco successivo Rocketman, con Taron Egerton nei panni di Elton John (successo minore, ma impatto ugualmente esplosivo), Stardust ha un limite non da poco, un po’ come accaduto con Jimi: All Is By My Side su Hendrix: le canzoni di Bowie, assenti e fuori dalla disponibilità della produzione per volontà del figlio regista del Duca Bianco, Duncan Jones, per il quale il film non sarebbe in realtà un biopic e la famiglia non sarebbe stata coinvolta in alcun modo nel processo creativo. Stardust sceglie allora una via più impervia e insolita per questo tipo di prodotti: l’origin story, il David prima di Bowie, la messa a fuoco del ragazzo problematico e insicuro che si celava dietro uno degli artisti più poliedrici e multiformi del XX secolo, qui è interpretato dall’emergente e molto valido Johnny Flynn.
In Stardust siamo nel 1971 e Bowie intraprende il suo primo viaggio in America con Ron Oberman, addetto stampa della Mercury Records, per incontrare un mondo che dà l’idea di non essere ancora disposto ad accogliere le mille incarnazioni di Bowie, il suo estro frutto di tanta schizofrenia personale e pochissimi argini all’orizzonte. Dopotutto l’autore di Heroes aveva conosciuto la paralisi della follia da molto vicino (la storia dei suoi familiari, dal fratello alle zie, parla da sola) e il film ce ne racconta il ripiegamento emotivo, la sofferenza acerba ma comunque lancinante, le incertezze da cui si sprigionerà, per contrasto, il suo alter ego più celebre, il rocker alieno e pansessuale Ziggy Stardust: l’incarnazione di tutto quel potenziale mitomane e multiforme covato dentro David Bowie, al secolo David Robert Jones, e nella porzione temporale scelta da Stardust ancora tutto da esprimere.
Il Bowie di Stardust naturalmente non è quello di Velvet Goldmine (il Brian Slade di Jonathan Rhys-Meyers era chiaramente ispirato a lui), né quello della vulgata contemporanea nota anche a tanti giovanissimi. Il titolo, eloquentemente, toglie Ziggy e lascia solo Stardust, quella “polvere di stelle” che, in una sorta di cupo riavvolgimento del nastro, non coincide con i fantasmi di morte dell’ultimo album-testamento Blackstar ma con una giovinezza tanto frastagliata quanto travagliata. Il tutto mentre David è alle prese col lancio del suo terzo album The Man Who Sold the World, non a caso amatissimo da Kurt Cobain per la sua sofisticata, programmatica e ruvida dose di pazzia giovanile (la stessa caratteristica fondamentale cui è da attribuire anche, probabilmente, l’amor fou di Bowie in anticipo sulla loro esplosione per Lou Reed e i Velvet Underground, accennato nel film e su cui c’è ampia letteratura).
Impossibile, con queste premesse, pretendere dal film la trattazione onnicomprensiva di una vita dai mille volti, tra aneddotica sessuale leggendaria e un turbinio smodato di alter ego: Stardust lavora consapevolmente più al ribasso, guarda al lascito di tanto cinema pop inglese provando a economizzare le risorse e gli slanci biografici a sua disposizione, senza strepiti ma anche senza particolari scorrettezze o sgrammaticature. Non è quindi un Bowie-movie a tutto tondo, come quello che avrebbe potuto dedicargli Danny Boyle se fosse riuscito a sedurre il grande performer prima della sua scomparsa, ma un onesto, romanzato “dietro le quinte della Storia” in tono minore, dove non c’è differenza, parafrasando una battuta del film, tra una rockstar e qualcuno che la impersona. Solo per il momento, però, verrebbe da dire pensando a chi e cosa diventerà quel ragazzo inglese, tutt’altro che un hippie come tanti, una volta dismesso quel cappello da western improbabile, da scombussolato cavaliere errante che sembrava uscito da un film sperimentale di Andy Warhol.
Il cartello all’inizio del film, infine, rivendica poi a chiare lettere e senza rischi d’incomprensioni la libertà di immaginare un percorso di coming of age – quello che state per vedere è (mostly) fiction, ci viene detto – di lavorare di fantasia pur senza rinunciare alla vena filologica del regista, “maniaco” di Bowie e co-sceneggiatore di un altro film su un diverso capitolo della vita dell’artista, Lust for Life, sull’anno vissuto a Berlino Ovest con Iggy Pop: una presenza che in Stardust è solo un’emanazione e, un po’ come tutto il film, la promessa (per il momento solo relativamente sfacciata) di una trasgressione futura e senza ritorno.
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