Johnny (Joaquin Phoenix), giornalista noto per i documentari e le interviste rilasciate in radio, si sta occupando di un nuovo progetto, che lo vede intento a viaggiare per l’America per incontrare diversi bambini e intervistarli riguardo il futuro non proprio idilliaco del nostro pianeta.
Quando si ritrova costretto a prendersi cura del giovane nipote Jesse (Woody Norman), mentre sua madre Viv (Gaby Hoffmann) bada al padre malato mentale, decide di partire col piccolo in uno dei suoi viaggi, che li porterà da Los Angeles a New York e poi New Orleans. Durante l’itinerario, i due stringeranno un legame del tutto inaspettato.
C’mon C’mon, presentato nella Selezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma 2021, è un film permeato da cima a fondo, tanto in regia quanto in scrittura, dalla sensibilità non indifferente di Mike Mills, alfiere dell’indie americano tra i più delicati e ricercati, anche a livello stilistico e formale. In questo suo nuovo lavoro il regista di Beginners e 20th Century Women parla di problematiche individuali legati all’apertura faticosa verso l’altro ma anche di presa di coscienza dei mali del mondo, attraverso il tentativo del protagonista di mappare il punto di vista dei giovani americani contemporanei rispetto a tematiche ambientali, etiche e sociopolitiche di stringente attualità.
Si tratta della cornice che apre il film – uno spunto analogo al recente documentario Futura firmato a sei mani da Alice Rohrwacher, Pietro Marcello e Francesco Munzi – e che di fatto lo chiude anche, visto che sono proprio le voci dei ragazzi a scorrere ininterrottamente sui titoli di coda. In mezzo c’è il viaggio intenso e struggente di un reporter e un ragazzino di nove anni che finiscono con lo specchiare l’uno nell’altro la propria reciproca solitudine, ritrovando un contatto con se stessi in due età della vita molto diverse e approdando a un’amicizia speciale.
Dentro C’mon C’mon sono tutti i canoni del cinema a stelle e strisce da Sundance, riversati però in una confezione di più ampio respiro: il minimalismo e il bianco e nero estremamente rifinito vanno di pari passo a un’esplorazione dei buoni sentimenti che non teme il sentimentalismo e la retorica, maneggiandoli a piene mani per trovare una propria via alla commozione che non suona mai bieca e artificiosa, nonostante la patina delle immagini sia sempre adeguatamente sottolineata.
Un’oscillazione virtuosa tra forma e contenuto, potremmo dire, che però nonostante le risoluzioni puntualmente edificanti e solari non rinuncia ad affrontare tanti traumi e nodi cruciali: dall’abbandono alla solitudine passando per le scorie dei traumi psichici e la necessità di edificare nuove premesse e parametri sociali, più lucidi e meno subalterni a nevrosi incancrenite. Alla luce di queste premesse suona meno grezzo e ispido del solito anche Joaquin Phoenix, attore estremamente abituato a performance rabbuiate e senza un filo di speranza, e che qui dà invece l’idea di aver lavorato più del solito su fragilità, tentennamenti, impeti di dolcezza, lacrime solo accennate.
Foto: A24, Be Funny When You Can
© RIPRODUZIONE RISERVATA