Festa del Cinema di Roma 2021, il ciclone Quentin Tarantino: «Vorrei fare uno spaghetti western parlato in più lingue»
telegram

Festa del Cinema di Roma 2021, il ciclone Quentin Tarantino: «Vorrei fare uno spaghetti western parlato in più lingue»

Il resoconto dell'Incontro Ravvicinato col regista di Pulp Fiction e C'era una volta a... Hollywood e della sua giornata da mattatore nella Capitale

Festa del Cinema di Roma 2021, il ciclone Quentin Tarantino: «Vorrei fare uno spaghetti western parlato in più lingue»

Il resoconto dell'Incontro Ravvicinato col regista di Pulp Fiction e C'era una volta a... Hollywood e della sua giornata da mattatore nella Capitale

Quentin Tarantino

Quentin Tarantino ha tenuto un fluviale Incontro Ravvicinato alla Festa del Cinema di Roma, nel quale, prima di essere insignito del Premio alla Carriera ricevuto dalle mani di Dario Argento, ha toccato tantissimi punti e approfondito molti aspetti della sua attività da regista e della sua carriera cinematografica, incalzato dalle domande del direttore artistico della Festa Antonio Monda.

Qual è il primo film che hai visto?

Il primo film che ricordo di aver visto è un film inglese con Richard Johnson, uno spy movie degli anni 60. Avevo circa 5 anni, non ricordo molto del film ma ricordo un episodio preciso: una scena un po’ sadomaso in cui c’era una persona rapita e tenuta prigioniera, la parte politico-sessuale mi sfuggì completamente. Non ricordavo che film fosse, solo che due ragazzi rapivano e legavano un tizio. Quando ho iniziato a collezionare film, ho comprato poi questo titolo e l’ho rivisto. Arrivato alla scena in questione l’ho riconosciuto, ricordavo anche alcune azioni di Johnson.

Ti senti più sceneggiatore o più regista?

Non so se sono uno sceneggiatore che dirige o un regista che scrive. Forse entrambe le cose. Fin dall’inizio ho avuto un’opinione piuttosto alta di me stesso, soprattutto per la capacità di scrittura dei miei dialoghi. All’inizio quindi pensavo di essere uno sceneggiatore. Poi però mi sono messo al lavoro dietro la macchina da presa, penso di essere un bravo regista a catturare e mettere in scena ciò che lo sceneggiatore scrive.

Quando scrivi le sceneggiature pensi già prima agli attori? Soprattutto nel caso di Jackie Brown

No, per quel film non avevo nessuno in testa. De Niro ad esempio si è palesato a sorpresa. È un processo che nasce, cresce e si sviluppa da solo ma di base no, sono concentrato sul foglio bianco e le battute. A volte scrivo comunque con in mente qualcuno, ma il più delle volte ho in mente solo il personaggio. Se scrivo per qualcuno, deve essere un attore che già conosco. Ad esempio, il risultato di Landa per Bastardi senza gloria non sarebbe stato così articolato e ricco se avessi prima pensato a un attore. Mentre scrivevo, mi accorgevo che Landa avrebbe dovuto essere un cattivone capace di parlare molte lingue perché è un genio. Quindi, arrivato al termine, ho pensato che nessuno avrebbe potuto farlo perché nessuno parla tutte quelle lingue eccetto Waltz. Quindi Landa non è un personaggio limitato perché ho lasciato tutta la libertà alla pagina e poi ho trovato lui. Tuttavia, quando ho scritto Django Unchained, ho richiamato Waltz perché volevo ripetere la collaborazione. Mentre scrivevo stavo già pensando a lui e ho improntato il personaggio sulle sue caratteristiche. Lo stesso succede anche con Samuel L. Jackson. Conosco bene il suo timbro, so dove può portare il film e lo modello di conseguenza.

Quentin Tarantino

Foto: Franco Origlia/Getty Images

Qual è il tuo film preferito e perché?

Il buono, il brutto, il cattivo è il mio film preferito di sempre. Non so dirti perché lo amo così tanto. Semplicemente lo è. Non trovo nulla di meglio. Sul set, quando voglio fare un primissimo piano sugli occhi, lo chiamo SERGIO (in onore di Leone), tutti coloro che lavorano con me ormai lo sanno.

Quando hai deciso che saresti diventato regista?

C’è voluto un po’, non è stata una decisione presa alla leggera. Non appena ho capito cosa fosse e chi fosse un regista, ho capito che quella era la mia strada. Da ragazzino vedevo gli attori ed ero affascinato dal mondo del cinema, volevo farne parte. Però a me interessava il cinema, il film. Anche quando volevo fare l’attore, per me il vero eroe era il regista, non l’attore. Iniziando a studiare recitazione, mi trovai dei compagni che amavano molto meno di me il cinema. A me interessava il cinema, a loro interessavano loro stessi. Io amo così tanto il cinema che ho deciso che i miei film li avrei fatti io.

Ti è mai capitato di scrivere un ruolo per un attore o un’attrice che poi l’interprete ha di gran lunga travisato portandolo da qualche altra parte?

Si può arricchire il film via via che si gira grazie alle qualità degli attori. Non ho mai sforato troppo rispetto alla sceneggiatura. Magari qualche piccola differenza proprio perché l’attore dà un contributo interessante aggiustando il tiro. Prendiamo l’esempio di Bill. Mi immaginavo Warren Beatty, lo volevo come Bond cattivo. Poi per una serie di motivi Warren non era disponibile e ho scelto David Carradine perché in quel momento stavo leggendo la sua biografia. Me lo immaginavo bene e così ho adattato il personaggio a lui. Originariamente però era davvero diverso.

Quentin Tarantino

Foto: Franco Origlia/Getty Images

Parlaci della tua collaborazione con Ennio Morricone.

Per me è stato un sogno. Morricone è il mio compositore preferito. Non intendo solo di colonne sonore, ma proprio nel senso lato del termine. Quando feci The Hateful Eight pensavo che il film avrebbe dovuto avere uno score originale. Io di solito scelgo le musiche che adoro, qui invece volevo qualcosa di nuovo pensato apposta. Tempo prima lui mi aveva detto che sarebbe stato disponibile per me, quando avrei deciso di usare uno score originale. Quindi l’occasione è stata quella. Se lui avesse detto di no, avrei fatto come al solito e scelto brani già editati. Ho fatto tradurre la sceneggiatura in italiano per Morricone. Arrivo a Roma per incontrarlo con sua moglie Maria. Lui mi chiede quando avrei iniziato a girare il nuovo film ma io gli dissi che lo avevamo già finito, avevo bisogno della colonna sonora perché eravamo in fase finale. Lui disse che non aveva capito, di essere stato informato male e che non aveva tempo per me. Ci rimasi male ma lo accettai. Lui però a quel punto disse che aveva un’intuizione che poteva sviluppare. Non una colonna sonora intera, ma qualcosina. Aveva in mente un tema principale che, variandolo un po’, poteva arrivare a una decina di minuti. La sera dopo c’era la cerimonia dei David. Lì Ennio si avvicinò e disse che aveva delle altre idee, stava creando altro e quindi poteva arrivare a 40 minuti. Inoltre aveva dei brani scritti per un film di Carpenter ma non usati e quindi abbiamo creato uno score originale. Così è andata. Ennio Morricone è stato un vero gigante. Solo questo posso dire.

Come hai scoperti i cineasti italiani di serie B e cosa ti piace di loro in particolare?

Ho avuto la fortuna di crescere negli anni 70 e i film italiani in quella decade si rifacevano moltissimo al cinema di genere. Mi sono sempre piaciuti, mi divertivano. Secondo me, quando i registi italiani sfruttavano le tendenze del genere, lo facevano meglio dei registi americani. Questo perché erano tutte pellicole bigger than life, si spingeva sempre oltre: violenza, sesso, tutto andava oltre le righe.

Quentin Tarantino

Foto: Vittorio Zunino Celotto/Getty Images for RFF

Hai mai pensato di girare un film in Italia, magari a Cinecittà?

Mi piacerebbe da matti. Sia per me che per mia moglie. Si tratterebbe di un’esperienza straordinaria ma ci vuole la storia giusta. Sto lavorando a qualcosa, non dico che sarà il mio prossimo film, ma qualcosa, in cui vorrei inserire un momento tipicamente italiano in stile spaghetti western in cui c’è un gruppo di personaggi che parlano lingue diversissime tra loro e l’unica maniera per dirigerli sarebbe aspettare che l’interprete prima finisca la sua battuta.

Foto: Vittorio Zunino Celotto/Getty Images for RFF

Ad arricchire il Quentin Tarantino Day anche la conferenza stampa con i giornalisti, nella quale si è parlato più approfonditamente di C’era una volta a… Hollywood, ultimo film di Tarantino del quale il regista ha pubblicato anche una versione in forma di romanzo, novellizzazione uscita in Italia edita da La Nave di Teseo. «Sono i primi libri da adulto che ricordo di aver letto – ha detto Tarantino a proposito del libro e delle novellizzazioni di film in generale – ho letto romanzi tratti da film che non avevo neanche visto. Ho iniziato a rileggerne alcuni qualche anno fa e ho pensato che fosse geniale tutto sommato farne uno per uno dei miei film. Calzano anche col discorso che faccio tra alto e basso, in fondo è la forma più bassa di letteratura. Ho iniziato a scrivere un libro su Le iene ma mi sono detto: “che c***o sto facendo?” C’era una volta a… Hollywood invece si adattava di più a quest’esigenza, ho fatto tanta ricerca per sviluppare i personaggi. Avevo del materiale che sapevo non sarebbe mai stato incluso nel film. Il romanzo espande il mio film ma è anche un sottogenere, ovvero un romanzo su Hollywood».

Riguardo Pulp Fiction, Tarantino ha detto, riferendosi a come sia mutata la libertà per i registi: «Oggi è più difficile sicuramente, bisogna farlo e per farlo bisogna volerlo fare, senza preoccuparsi del fatto che magari alla gente non piaccia. Non bisogna riflettere troppo, quando ho fatto Pulp Fiction ricordo la stampa ci ha dato molta attenzione ma dei critici hanno giudicato il film in maniera molto dura. Sì dicevano cose come questo tizio non è così speciale in fondo, il film si è divertente ma insomma, erano pezzi lunghi e complessi. Io mi dicevo: ho fatto in film divertente su dei gangster, ma che problema hai?».

«Non bisogna essere troppo sensibili – ha aggiunto – se il film è un argomento di conversazione e coglie lo spirito del tempo e lascia il segno ci saranno persone a cui non piacerà e reagiranno negativamente, ma va bene così. Se uno non se la prende sul personale vuol dire comunque animare una conversazione, se ti insultano e ti fanno delle critiche spietate bisogna superarlo, fa parte del dibattito. Ci troviamo in un tempo repressivo, certo, ma gli anni ‘80 lo erano altrettanto. La permissività degli anni ‘90 deve qualcosa a Pulp Fiction, ma se fosse uscito qualche anno dopo la risposta sarebbe stata molto diversa».

Riguardo al futuro del cinema, Tarantino ha parlato anche della sua attività da proprietario di sale a Los Angeles: «Dovremo stare a vedere, nessuno può rispondere. Ha riaperto da poco il mio cinema, il New Beverly, ed era pieno, c’era tanta voglia di tornare in sala, e per quel che mi riguarda ho appena comprato un’altra sala. Ma è un discorso da boutique, me ne rendo conto, per i film che aprono in 3000 sale e devono fare subito grandi incassi dovremo aspettare e capire cosa succede. Sono stato veramente fortunato ad aver potuto realizzare C’era una volta a… Hollywood nel 2019, è stato come un uccello che riesce a entrare in una gabbia poco prima che chiuda e alcune penne rimangono incagliate».

Su Bastardi senza gloria: «Adoro il titolo italiano, per quello l’voluto citare in italiano. All’inizio non avevo intenzione di cambiare la storia, mi sono messo in trappola da solo, non sapevo come uscirne e ho deciso di uccidere Hitler, ho avuto una buona idea all’epoca! A proposito della trilogia che quel film costituisce con Django Unchained e C’era una volta a… Hollywood qualcuno mi ha detto in un’intervista che ho usato lo stesso finale che ho utilizzato in Bastardi senza gloria. Mi ha chiesto: per lei va bene? Sì, perché è il mio finale!».

Il suo personaggio che predilige, a detta di Tarantino, è invece il Cliff Booth di Brad Pitt in C’era una volta a… Hollywood: «Ci troveremo bene, mi piace, è simpatico, quello che odio di più è Calvin Candie (Leonardo Di Caprio in Django Unchained, ndr), mentre quello con cui probabilmente discuterei di più è Rick Dalton (DiCaprio in C’era una volta a… Hollywood, ndr): un piagnucolone che non apprezza quel che ha avuto. Leo ci scherzava: ‘Si dispiacciono tutti per Rick, non Quentin».

Sul film che cancellerebbe dalla storia del cinema, se potesse, Tarantino si è così espresso: «Ho un grosso problema con The Birth of a Nation (Nascita di una nazione) di David Wark Griffith. Ho molti motivi per avercela e uno dei principali non ha a che fare solo col razzismo insito nel prodotto, ma con la rinascita del Ku Klux Klan in America che il film ha catalizzato. Tanti neri ed ebrei sono stati uccisi dal KKK in sessant’anni, e credo che se Griffith fosse stato processato a Norimberga con gli stessi principi secondo cui lo furono i nazisti sarebbe stato dichiarato colpevole. Non voglio ucciderlo, non voglio uccidere nessuno, ma ci sono persone che se non ci fossero state…».

Infine, una nota sulla paternità e sul figlio Leo avuto dalla moglie Daniella Pick: «Le mie priorità sono un po’ cambiate da quando sono padre, e c’è un motivo se ho avuto un figlio adesso e non 20, 10 o anche solo 9 anni fa. Arrivando alla fine della mia carriera sono cambiate le priorità e anche in maniera significativa». 

Foto: Franco Origlia/Getty Images

Foto di copertina: Vittorio Zunino Celotto/Getty Images for RFF

Leggi anche: Venezia 78, Django & Django: Le nostre interviste a Franco Nero e ai registi del documentario con protagonista Quentin Tarantino [VIDEO]

© RIPRODUZIONE RISERVATA