Quella di Marco Carrera è una vita di coincidenze fatali, perdite, rimpianti amori assoluti e lo scrittore Sandro Veronesi l’ha raccontata mirabilmente nel suo romanzo Il Colibrì, vincitore del Premio Strega 2020, edito da La Nave di Teseo (con 330.000 copie vendute in Italia) e tradotto in 25 lingue. La regista Francesca Archibugi ne ha tratto un film che lei stessa ha definito “un unico flusso di avvenimenti su piani sfalsati” e che con la forza dei ricordi traduce in immagini la complessa e non di rado miracolosa struttura a incastro delle pagine dell’autore di Caos Calmo.
La storia portata sullo schermo procede attraverso immagini che permettono di saltare da un’epoca a un’altra, in un tempo liquido che va dai primi anni ‘70 fino a un futuro prossimo (il 2030). È al mare che Marco (Pierfrancesco Favino) conosce Luisa Lattes (Bérénice Bejo), una ragazzina bellissima e inconsueta. Un amore che mai verrà consumato e mai si spegnerà, per tutta la vita. La sua vita coniugale sarà un’altra, a Roma, insieme a Marina (Kasia Smutniak) e alla figlia Adele (Benedetta Porcaroli). Marco tornerà a Firenze sbalzato via da un destino implacabile, che lo sottopone a prove durissime. A proteggerlo dagli urti più violenti troverà Daniele Carradori (Nanni Moretti), lo psicoanalista di Marina, che insegnerà a Marco come accogliere i cambi di rotta più inaspettati.
Non era impresa facile tradurre per il cinema un romanzo denso e stratificato come quello di Veronesi, nel quale la limpidezza cristallina dello stile si affianca a una struggente messa a punto di psicologie, languori, ritratti morali. Archibugi ha affrontato questa sfida con grande fedeltà al testo originale, mantenendo una stretta aderenza ai tantissimi capovolgimenti temporali del libro e alla sua ossatura. La letterarietà è dunque doppiamente presente, tanto nella cornice quanto nella matrice profonda della trasposizione. Lo è con alcuni contraccolpi, dovuti alla necessità di congestionare un materiale molto ricco in due ore di durata, ma anche con una tesa e vibrante aderenza ai tutti i nodi di complessità del riferimento di partenza.
Favino, che recita abilmente in toscano e aderisce come sempre con anima e corpo al suo personaggio, si conferma attore di metodo in grado di grandi trasformazioni ma anche di impercettibili e accorate sottigliezze. Questo film, dal suo punto di vista, tiene insieme la sua doppia anima ormai conclamata di attore–totem prediletto dagli autori nostrani e di icona nazionalpopolare in grado di assumere su di sé il peso di una storia universale e tutta italiana, di un grande e intimo romanzo borghese. Una borghesia rispetto alla quale Il Colibrì non è mai crudele ma sempre indulgente, sfiorando collassi individuali e cupissime tragedie personali con la delicatezza volatile evocata dall’uccello del titolo.
Il Colibrì si riallaccia molto a Caos Calmo, inevitabilmente, a un altro adattamento di un romanzo di Veronesi datato 2008. Non a caso c’è anche il protagonista di quell’opera, Nanni Moretti, nel ruolo dello psicanalista (il post ironico su Instagram che Moretti aveva dedicato alla vittoria a Cannes di Titane non era in realtà realizzato con FaceApp, come molti avevano pensato e come scopriamo solo oggi, ma vi si ritrova il trucco invecchiante usato ne Il Colibrì). Al regista di Caro diario sono affidate poche ma significative sequenze, nelle quali Moretti scandisce moltissimo le sue battute, sulla falsariga della recitazione asettica e straniante già proposta nel suo ultimo Tre piani.
L’apertura del film prende poi le mosse da un film che lo stesso Moretti citava e distorceva in modo memorabile in Palombella rossa, Il dottor Zivago, e dentro il personaggio di Daniele Carradori, portatore di un monito sul rifugiarsi nell’immaginazione per anestetizzare la realtà, ci sono svariati echi della sua filmografia, dallo psicanalista Giovanni de La stanza del figlio all’idea di Super-Io “arbitro”, sollecitato dalla fregola di sovrastare gli altri in chiave agonistica e sportiva, anche a costo di irritare e fare arrabbiare i giocatori, come in Habemus Papam (con un campo da tennis, in questo caso, al posto della pallavolo).
Il protagonista viene invece soprannominato “colibrì” per la sua precarietà fisica (da piccolo era stato sottoposto a cura ormonale per crescere in altezza e statura) e anche Il Colibrì è un film che fa mostra delle sue fragilità senza mai rinnegarle, raccontando il presunto immobilismo di Marco Carrera e la sua incapacità di fare del male rinfacciatagli dalla moglie con un costante e a tratti frenetico dinamismo di piani e livelli, quasi a dissimulare un vuoto e a (tentare di) colmarlo nel costante, mai domo rispecchiamento nelle prospettive dei personaggi, che poi sono anche i vari punti di vista di più potenziali spettatori possibili.
Particolarmente tragici, e oltremodo significativi, sono soprattutto i personaggi femminili, depositari di traumi e tragedie ancestrali, molto più a fuoco delle fragilità e inettitudini tutte maschili: dall’Irene di Fotinì Peluso, sorella del protagonista morta suicida a 24 anni, alla moglie Marina, una Kasia Smutniak che si concede finalmente un personaggio disperato e abrasivo esponendone rabbia e disillusione, oltre che volontà di menzogna e tradimento; passando per Laura Morante, nuovamente matrona ingrigita di questo tipo di coté dopo l’assai sottovalutato Lacci di Luchetti, e Benedetta Porcaroli, figlia ma anche madre, depositaria ultima di un futuro da ricoprire di reticenza e pietà. Per vergogna dei padri, oltre che per pudore dei figli.
Foto: Fandango, Rai Cinema, Les Films des Tournelles – Orange Studio
Leggi anche: Festa del Cinema di Roma 2022: Il Colibrì di Francesca Archibugi è il film d’apertura della 17esima edizione
© RIPRODUZIONE RISERVATA