Festa del Cinema di Roma: la recensione di Hostiles, il western con Christian Bale che ha aperto la rassegna
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Festa del Cinema di Roma: la recensione di Hostiles, il western con Christian Bale che ha aperto la rassegna

Nel cast anche Rosamund Pike, presente nella capitale assieme al regista Scott Cooper per presentare il film, una storia di indiani feroci, bianchi razzisti e ferite da risanare

Festa del Cinema di Roma: la recensione di Hostiles, il western con Christian Bale che ha aperto la rassegna

Nel cast anche Rosamund Pike, presente nella capitale assieme al regista Scott Cooper per presentare il film, una storia di indiani feroci, bianchi razzisti e ferite da risanare

Hostiles, il nuovo western di Christian Bale, con Rosamund Pike

Che oggi Scott Cooper sia considerato, soprattutto in America, un autore, è un segno dei tempi più che del suo cinema. Cooper gira solidi film commerciali, quasi sempre dentro i generi, ma in una condizione di relativa “povertà” (parliamo comunque di budget che girano attorno ai 50 milioni), cioè in un contesto indipendente che gli consente di operare sulla struttura abbastanza rigida delle storie che maneggia, piccole variazioni che solleticano i cinefili e lo rendono ben accetto ai festival.

Ad oggi il suo film più riuscito è Crazy Heart, elegia americana pensata attraverso la musica country, e se gran parte del merito era dei due strepitosi protagonisti (Jeff Bridges e Maggie Gyllenhaal), già si capiva che Cooper ha un occhio ben educato per i campi lunghissimi, una sensibilità per il paesaggio giusta per il western.

Hostiles, che ha aperto la Festa del Cinema di Roma 2017, celebra quindi un matrimonio inevitabile dopo i mediocri Out of the Furnace e Black Mass. Siamo nel 1892, e il capitano Joseph Blocker (Christian Bale) deve scortare la famiglia di un importate capo indiano – Falco Giallo (Wes Studi) – dal New Mexico al Montana, come segno di distensione fra bianchi e nativi americani. Il passato che lega i due è una storia di battaglie e orrori letteralmente indescrivibili (“Quello che era rimasto di quei ragazzi bastava appena a riempire un secchio”), si dice poco e si allude molto, ma si capisce che entrambi si sono sporcati le mani abbastanza da non poterle più lavare.

Il senso del film è tutto in questo viaggio che segna la lenta pacificazione tra i due nemici, mentre le sue ragioni sono nei tanti comprimari e nelle loro storie, i ferocissimi indiani Comanche, i bianchi razzisti e quelli tormentati dagli incubi, gli sporadici avamposti di civiltà come puntini da unire, in attesa che le ferrovie stringano gli spazi. C’è un grande affannarsi dentro questi territori maestosi, attraverso una natura “malickianamente” sovrastante, come malickiana è la scelta di affidare a una donna (la Rosalie Quald di Rosamund Pike) che ha subito un lutto insopportabile il peso della Grazia, cioè un sentimento di accettazione/riconciliazione che ha molto a che fare con la fede religiosa.

Western ideologico e politicamente corretto, in cui la maestosità degli spazi è asfissiata da una costante cappa di violenza, si merita una visione su grande schermo nonostante una certa pigrizia nel casting (Wes Studi come capo indiano e Ben Foster come villain sono scelte che sarebbero già sembrate vecchie cinque anni fa) e nel ritratto dei nativi. Le molte scene esterne con luce naturale, ma anche, all’opposto, gli interni inghiottiti dalle ombre, a lume di candela, che paiono usciti da un film di James Gray, danno al film una bellezza solida, rassicurante, che funziona per contrasto con la reiterata messa in scena della morte, a partire dall’agghiacciante prologo.

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