Tra i titoli di maggior spicco della Festa del Cinema di Roma 2016 non si può non citare Manchester by the Sea (nelle sale italiane dall’1 dicembre), intimo dramma scritto e diretto da Kenneth Lonergan, il quale si è dimostrato più che disponibile nel raccontarci la genesi e lo sviluppo del film, che vede Casey Affleck sublime protagonista, tormentato da uno straziante senso di colpa…
Com’è nata l’idea che ha condotto alla realizzazione di Manchester by the Sea?
«Matt Damon e John Krasinski vennero a trovarmi nel mio appartamento diverso tempo fa e mi dissero che avevano in mente l’idea per un film e volevano che io la tramutassi in sceneggiatura. Così Matt iniziò a raccontarmi la storia, essenzialmente basata su di un uomo che aveva perso la sua famiglia a causa di un incidente, incidente di cui si sentiva colpevole. Allontanatosi dalla città in cui il dramma si era consumato, l’uomo è costretto a ritornarvi dopo la morte del fratello e a fare le veci di tutore di suo nipote. È come se l’ultimo atto del fratello prima di morire fosse stato quello di richiamare il protagonista alla vita. Quando mi proposero questo progetto, fui molto contento di entrarvi e farne parte, occupandomi dello script. Poi, due anni dopo, John non era più disponibile per dirigerlo, anche Matt era occupato e allora, leggendo una prima stesura dello script, fu proprio Matt che mi propose di assumerne la regia. Dopo averci pensato un po’ su, mi resi conto che mi avrebbe fatto piacere e così mi misi all’opera!»
Quanto è stata importante Manchester, che rappresenta anche il luogo dell’anima del protagonista, per lo svolgimento del film?
«Quando scrivo qualcosa, che sia destinato al cinema o al teatro, cerco sempre di infondervi concretezza. Se nel corso della stesura dello script prendono forma significati altri o metafore, è meraviglioso, ma diciamo che avviene a livello inconscio. Lee Chandler è fuggito da Manchester ed è riuscito a starne lontano per cinque anni, ma una chiamata cambia tutto. Con un’ora e mezza di viaggio in macchina raggiunge quel posto da cui aveva preso le distanze e inizia ad intessere una relazione con il nipote. Ed ecco che la vicenda prende forma attraverso le azioni. Credo fermamente nell’importanza della concretezza della storia: quando sei in grado di costruirne una poggiando soprattutto sulla tangibilità degli eventi, il significato più profondo fuoriesce da sé».
In che modo hai lavorato con gli attori?
«Cerco sempre di lavorare con gli interpreti in modo specifico e, ovviamente, concreto. Casey Affleck, ad esempio, sentiva la necessità di parlare del comportamento assunto da Lee Chandler, quest’uomo che tenta di lavorare il più possibile ogni giorno per tenere a ragguardevole distanza i ricordi che affollano la sua mente e che rappresentano un peso troppo grande da sostenere. Quando, nelle prime scene, Lee deve occuparsi di riparare il bagno, il mio consiglio a Casey è stato: “Pensa che il tuo unico obiettivo è quello di riparare quello che c’è da riparare, non vuoi parlare di nient’altro. Quindi, se ti fanno domande riguardo come stati affrontando il lavoro, ok, altrimenti non hai alcuna voglia di rispondere!”»
Casey Affleck è Lee Chandler, un uomo che non riesce a rispondere alla vita: o si lascia apparentemente scorrere tutto addosso oppure reagisce in modo spropositato, con esplosioni di rabbia. Come avete lavorato sulla costruzione di questo personaggio?
«Lunghe e minuziose conversazioni, accompagnate da investigazioni nei meandri del personaggio, hanno dato vita a un risultato più che soddisfacente. Tentando di capire a fondo il modo di reagire di Lee e lasciando Casey libero di esprimersi in veste di attore, ho cercato con la mia regia di seguirlo e di rendere al meglio il suo lavoro. Non ricordo esattamente quali suggerimenti ho proposto io e quali invece Casey, però so per certo che lui è stato in grado di fare domande e, riflettendo attentamente, auto-fornirsi valide risposte. L’esito di tutto questo? Lee Chandler diventa un personaggio capace di trasformarsi in un uomo forte per un determinato periodo, sente la necessità che tutto sia sotto controllo, anche se poi non riesce a sopportare le memorie di un dolore passato e tutto crolla…»
Lee instaura una relazione particolare con suo nipote. Possiamo dire che si riflette in Patrick? Prendendosi cura di lui è come se Lee si prendesse cura di se stesso?
«Ottimo spunto! Direi di sì, anche se non ci avevo mai pensato prima d’ora. Patrick sa cos’è accaduto allo zio, entrambi hanno attraversato e stanno attraversando un periodo difficile, ma il nipote è l’unico che non si lascia impietosire dalla situazione dello zio. Mi piace molto come personaggio, è pretenzioso in modo giusto, forse potremmo dire egoista, ma non credo sia la parola adatta, piuttosto sa quello che vuole e cerca di ottenerlo. La madre è andata via di casa, il padre non c’è più e allora chiede, quasi pretende l’aiuto dello zio, in quanto ultimo desiderio del padre e questa richiesta fa decisamente bene a Lee. Chiunque altro si rapporti a lui lo fa considerandolo una persona strana, quasi bizzarra, mentre suo nipote è diretto, gli chiede semplicemente una mano. Relazionandosi in questo modo, Patrick tratta Lee come una persona e non come un problema, finalmente Lee ritrova un essere umano nella sua vita e anche se in realtà non vuole questa responsabilità, per lui è meglio rispetto a non avere più nessuno con cui confrontarsi. Anche se non può rimpiazzare la figura paterna che viene a mancare a Patrick, ora Lee ha di nuovo qualcuno nella sua esistenza a cui pensare. In fondo si tratta di una relazione di amore fraterno».
La colonna sonora si carica di un ruolo estremamente significativo, quasi fungendo da co-protagonista del film. Perché ed in che modo hai scelto brani fortemente evocativi per Manchester by the Sea?
«È molto difficile lavorare con il compositore perché parole e musica non hanno molto in comune. Posso dire quale sentimento voglio che emerga in una determinata scena e di conseguenza il tipo di musica che desidererei fosse presente, ma non è semplice spiegarlo. Lesley Barber ha composto molti brani per Manchester by the Sea, alcuni funzionanti ed altri meno, per esempio, quando Lee sta raggiungendo la città in macchina, ascoltiamo un pezzo che credo sia fantastico, perfettamente calzante il momento. Ma non credo ci siano parole per descrivere questo connubio: quando mi rendo conto che si tratta del brano giusto, lo prendo e lo inserisco sulla scena. Non so perché determinati pezzi finiscano per funzionare sulle immagini ed altri no, credo sia un mistero ancora non svelato…»
Da quando hai iniziato a scrivere la sceneggiatura fino alla fine delle riprese, hai apportato qualche cambiamento significativo al film? Hai aggiunto o tolto qualche scena in corso d’opera?
«No, l’unico grande cambiamento che ho apportato e che differenzia la prima stesura della sceneggiatura dalla seconda è l’inserimento del corposo flashback. Nella prima stesura non era presente, mentre nella seconda ho ritenuto opportuno inserirlo, per il resto lo script è rimasto pressoché lo stesso».
Qual è il momento durante la lavorazione di un film in cui ti senti più a tuo agio?
«Adoro lavorare con gli attori, e di conseguenza amo ciò che esce fuori quando ci riuniamo e parliamo a lungo riguardo i personaggi. È elettrizzante, quando scrivi qualcosa, vedere come gli interpreti facciano proprio quell’atteggiamento, quel modo di essere che si trova lì, su carta. Mi piace moltissimo scrivere, rimanere da solo con me stesso e dare libero sfogo all’immaginazione, ascoltando le voci nella mia testa e finendo con l’attribuire una struttura allo script per film o per teatro. Avverto sempre una gioia immensa quando vedo un mio lavoro che prende vita e spero sarà sempre così, anche in progetti futuri».