Per il suo nuovo film da regista, Bar Giuseppe, Giulio Base si è confrontato col tema religioso della Natività, riletto in chiave non solo realistica ma anche intima e personale. Protagonista è proprio Giuseppe (Ivano Marescotti), uomo indurito e ruvido che gestisce il bar e la stazione di servizio d’una zona rurale e rimane vedovo con due figli già adulti. Bikira (Virginia Diop), una moderna Maria il cui nome in swahili vuol dire proprio “vergine”, è sbarcata da poco dall’Africa e Giuseppe la assume come cameriera. I due si innamorano, creando un grosso scandalo nel paese, e finiscono addirittura con lo sposarsi, facendo i conti con l’ostilità dei figli dell’uomo. Alla Festa di Roma, dove il film è stato presentato in anteprima questa mattina, abbiamo intervistato il regista, che ci ha raccontato nel dettaglio il progetto, di un anno successivo alla sua precedente fatica dietro la macchina da presa, Il banchiere anarchico.
Come è nato in te il desiderio di confrontarti con una storia così ingombrante, rappresentata in ogni dove e con protagonisti due personaggi che riecheggiano a chiare lettere i genitori di Gesù?
L’onda che mi ha sospinto verso l’eterna scintilla della “novella” di Giuseppe e della sua sposa è il loro essere “migranti”. Sono partito dal desiderio di raccontare questa storia da una chiave umana, piena di pietà. Bar Giuseppe, in aramaico, vuol dire proprio “figlio di Giuseppe”, e il bar mi sembrava il luogo giusto per raccontare un’umanità che s’incontra, che convive l’una accanto all’altra, in un spazio di accoglienza e di mutuo e reciproco scambio. Per la figura di Giuseppe mi sono ispirato a un vangelo apocrifo di Giacomo in cui è contenuta la frase che lui nel film dice a Maria, esattamente identica a come la pronuncia Marescotti: “Io sono vecchio e ho figli, mentre tu sei una bambina…”.
Il tuo Giuseppe è molto particolare: ha una scorza apparentemente impossibile da scalfire, ma anche una notevole dose di fragilità. Non dev’essere stato facile sobbarcarsi la sfida di rappresentarlo. In fondo, anche nei Vangeli, di lui scopriamo davvero pochissimo.
Il personaggio di Giuseppe è davvero l’uomo che io vorrei essere. Un grande lavoratore ma anche di poche parole, semplice, umile. Si fa carico di un grande mistero ma rimanendo sempre in ombra. Anche nelle Scritture, che ho studiato molto e da cui sono partito (Giulio Base, oltre che in Lettere e Filosofia, è laureato anche in Teologia, ndr), di lui si parla meno di Maria e il mio film nasce dal desiderio di poter offrire allo spettatore una narrazione più incentrata sul suo punto di vista, sui suoi dubbi, sulla sua grande dignità di essere umano: un eterno padre su cui ci si può interrogare molto anche oggi, cercando di trovarvi un’attualità imprevista. Se ci pensi i luoghi religiosi più visitati al mondo sono quelli Mariani: Lourdes, Medjugorje, Nostra Signora di Guadalupe, mentre Giuseppe non ha a suo carico il peso di altrettante rappresentazioni.
In virtù del desiderio di assomigliare a lui di cui mi hai appena parlato, hai messo dentro il Giuseppe di Marescotti anche qualcosa di più vicino a te?
Ovviamente non mi sognerei mai di associare me stesso alla figura di Gesù, ma in questa storia c’erano degli echi che mi riguardavano da vicino anche sul piano personale e familiare: mio padre era un falegname e mia madre gli diceva che lavorava sempre, proprio come Giuseppe. Mi sono nutrito anche dei miei ricordi per avvicinarmi a questo racconto e servirlo nel modo giusto. I silenzi di Giuseppe sono pensieri da decifrare, in lui le mani contano più della bocca, il lavoro più delle parole. Si fa così simbolo di un’umanità che non strepita, accogliendo dentro di sé la grandezza di eventi impercettibili e la pietas che essi portano con sé.
Mi hanno colpito molto i personaggi dei figli di Giuseppe. Sono volutamente molto sgradevoli. Sia quello interpretato da Nicola Nocella sia, soprattutto, quello che ha il volto di Michele Morrone. Riportano tutta la vicenda a un livello prosaico, concreto, terreno, creando dialettica, tensione interna e forti contrasti.
Nel caso del personaggio di Nicola Nocella è a lui che pensavo mentre scrivevo ed è proprio Nicola che alla fine ho scritturato per fare il film, mentre per l’altro fratello ho ripensato molto a me stesso da giovane, a quando ero un ribelle arrabbiato e un po’ scriteriato. Per intenderci i tempi in cui ho fatto Crack (film diretto e interpretato da Base nel 1991, ndr). In realtà entrambi, pur avendo un determinato temperamento, concedono poi anche dei lampi di speranza, di comprensione, delle aperture. Il gesto di fare il pane, che è il mestiere del personaggio di Nicola, se ci pensi è quanto di più accogliente e dolce possa esistere al mondo, per gli odori e il senso di famiglia che porta con sé.
Come sei arrivato, più in generale, alla scelta degli attori?
Ivano ha fatto una lavoro straordinario a mio avviso, di grande intensità, era la migliore scelta possibile per portare in scena Giuseppe. Per il ruolo di Maria è stato invece più complicato. Ho visionato centinaia e centinaia di ragazze, considerando anche le foto e gli auto-provini non di persona ma in video che ci sono arrivati. Alla fine ho scelto Virginia Diop non solo perché ci tenevo che la Vergine Maria, oggi, venisse dall’Africa, ma anche perché aveva le caratteristiche giuste per questo ruolo: una ragazza di una bellezza incredibile ma che non ispirava desiderio di possesso sessuale da parte di uno sguardo maschile, bensì tanta dolcezza. Di questi tempi, secondo me, Maria non potrebbe che essere una migrante: gli esiliati ieri come oggi hanno le stesse paure, quella di non essere accolti, l’incertezza su lavoro e abitazioni.
Nel film fai un preciso lavoro formale ben preciso attraverso i droni e i movimenti di macchina e la macchina da presa si muove sinuosa e scruta gli spazi con delicatezza. Penso ad esempio alla casa brulla di Giuseppe e al modo in cui viene setacciata, tenendo il talamo matrimoniale sullo sfondo, alle riprese in esterni del bar, a questo tuo insistere sui campi lunghi e la messa in quadro dell’immagine come se fosse generata da un occhio esterno che guarda tutto dall’alto. Una sorta di pudico sguardo divino. Ti sei mosso consciamente in questa direzione?
Mi fa piacere che si noti questo sguardo, perché è proprio quello che ho cercato di fare. Quest’ascesi e quest’umiltà nel raccontare una storia di questo tipo volevo emergessero anche delle immagini. Il film se ci hai fatto caso è anche montato pochissimo, non ci sono molti campi e controcampi, è quasi tutto “montato in camera”. Quando inquadro un volto all’interno di un dialogo non vado immediatamente dall’altra parte ma lo seguo, rimango a osservarlo, anche per due minuti se necessario, per scrutarlo in profondità. Volevo questo respiro lento. Soprattutto in un mondo che fa tanto rumore inutile, come quello di oggi, mi sembrava la chiave più giusta per portare in scena una mia versione della Natività.
La mia sensazione, vedendo il film, è la stessa. Mi sembra che tu abbia lavorato molto “a togliere”, per approdare alla semplicità più scarna possibile, anche nel copione.
Tutto il mio lavoro alla sceneggiatura è stato guidato da questa volontà di sottrazione. All’inizio sono partito da un copione di centinaia e centinaia di pagine, pieno zeppo di appunti con temi metafisici che avevano a che fare con i testi biblici e i magisteri ecclesiastici, per andare anche oltre la religione e fornire uno sguardo laico e senza tempo. Ma col passare del tempo e del lavoro mi sono accorto che per essere più efficace avrei dovuto tagliare tantissimo, scarnificare tutto. Anche in sala di montaggio o sul set cercavo sempre di asciugare, di eliminare della battute. A chi mi consentiva o mi proponeva di farlo offrivo addirittura il caffé! E mi sono reso conto, scena dopo scena, che più toglievo più il film saliva d’intensità.
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