Avevo quattordici anni quando mi imbattei nella narrativa di Raymond Chandler, rimanendone del tutto sedotto. In breve tempo, lessi tutto quello che aveva scritto e poi, ancora affamato di quelle atmosfere, passai a Dashiell Hammett, che in termini di scrittura era quasi l’antitesi di Chandler ma che rappresentava l’altra faccia della medaglia del genere hard boiled. Terminati anche i suoi romanzi, passai a Mickey Spillane, che nell’ambito della letteratura a tinte forti degli anni ’40, era il parente di cui ti un poco ti vergogni ma che inviti a tutte le feste perché è l’unico capace di movimentarle un poco. E dopo di loro, Jim Thompson, James M. Cain, James Crumley, James Ellroy, in una progressione abbastanza tipica per tutti quelli che sono stati fulminati dalla scuola dei duri americani. Ovviamente, questa cosa ha avuto una certa influenza su di me e, per qualche tempo, ho scritto storie a base di detective scalcagnati, femmine fatali e spietati uomini di potere. Storie con dentro tanti cappelli fedora, pistole Colt Browning da 9mm, bottiglie di bourbon, jazz e fumo di sigarette. Tutte, rigorosamente, con la voce narrante del protagonista a raccontarlo.
Ecco, io credo che ad Edward Norton sia accaduto un poco lo stesso: ha fatto una sbornia di film e libri come Il grande sonno o Il falcone maltese e si è detto “PURE IO”.
E, per carità, va benissimo.
È successo anche a geni del cinema come Roman Polanski (Chinatown), o Robert Altman (Il lungo addio), ai fratelli Coen (Blood Simple, Crocevia della morte, Burton Fink, Il grande Lebowski, L’uomo che non c’era) o a Shane Black (L’ultimo Boyscout e Nice Guys) di mettersi in scia a mostri sacri del cinema come Howard Hawks o Billy Wilder, ma c’è da dire che lo hanno fatto interpretando il genere secondo un linguaggio e una sensibilità propria del loro tempo e non operando un banale esercizio di mimesi. Invece, Edward Norton, qui alla sua seconda regia, ha deciso di aderire completamente agli stilemi originali, portando sullo schermo un adattamento del bel romanzo omonimo di Jonathan Lethem del tutto privo di guizzi o innovazioni.
Per carità, il film gira e gira anche bene e fino a quando Norton resta nel seminato di una regia morbida e canonica, tutto fila liscio (molto meno quando si prova in soluzioni meno codificate, incappando in sgrammaticature di linguaggio e visivo abbastanza imbarazzanti), ma il problema è che questo film non aggiunge assolutamente nulla ad un genere che il cinema di tutto il mondo ha letteralmente sfruttato fino al midollo. È un film di fedora, come tanti, popolato da attori dalla carriera un poco appannata che cercano di ritrovare il successo giocando su un terreno sicuro.
Troppo sicuro. Così sicuro da essere noioso. Non c’è un momento, una scena, un dettaglio, che non sia un topos classico del genere: le botte in testa al detective protagonista, i locali fumosi, il jazzista drogato, la bella in pericolo, l’amico morto, il segreto nascosto sotto gli occhi di tutti, la coppia di scagnozzi, la crescita urbana vista come il male incarnato, il politico corrotto, il tradimento, il doppio gioco. C’è persino persino il cattivo che fa il bagno in piscina mentre parla con il detective buono. E l’unico dettaglio con un minimo d’originalità (la sindrome di Tourette di cui soffre il detective protagonista interpretato da Norton) non è esplorato in nessuna maniera e si limita a essere un elemento di colore che non ha alcuna reale ripercussione o influenza sulla trama e sul senso del film. Al pari del cerotto sul naso di Jack Nicholson. Detto questo, è un film fatto quantomeno con competenza e mestiere e ha un bel cast che si esprime al meglio (nota di merito per il solito Alec Baldwin, sempre magnifico).
In sostanza, se non avete mai visto un film di genere hard boiled in vita vostra, questo potrebbe anche intrigarvi ma, se non avete mai visto un film di genere hard boiled in vita vostra, c’è molto di meglio da poter recuperare.