Festa di Roma, ecco il film omaggio a Carlo Vanzina: Il cinema è una cosa meravigliosa. Intervista al regista Antonello Sarno
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Festa di Roma, ecco il film omaggio a Carlo Vanzina: Il cinema è una cosa meravigliosa. Intervista al regista Antonello Sarno

Il film che omaggia il cineasta scomparso nel luglio del 2018 passerà oggi all'Auditorium, ma intanto ce lo racconta il suo regista: «Non volevo fare un certificato di morte, ma un documentario su un regista che rimarrà vivissimo nella memoria di tutti»

Festa di Roma, ecco il film omaggio a Carlo Vanzina: Il cinema è una cosa meravigliosa. Intervista al regista Antonello Sarno

Il film che omaggia il cineasta scomparso nel luglio del 2018 passerà oggi all'Auditorium, ma intanto ce lo racconta il suo regista: «Non volevo fare un certificato di morte, ma un documentario su un regista che rimarrà vivissimo nella memoria di tutti»

Carlo Vanzina

Con oltre settanta titoli tra film e serie tv realizzati con il fratello Enrico, Carlo Vanzina, scomparso l’8 luglio 2018, è stato uno dei registi italiani più amati: la Festa del Cinema lo ricorda e lo omaggia quest’oggi con il documentario Carlo Vanzina. Il cinema è una cosa meravigliosa di Antonello Sarno, la cui proiezione si terrà alle 17.30 preso la Sala Petrassi dell’Auditorio Parco della Musica, con tanto di red carpet sul quale sfileranno, oltre al regista, anche Sabrina Impacciatore, Serena Autieri, Nancy Brilli, Enzo Salvini, Massimo Boldi, Massimo Ghini, Vincenzo Salemme, Neri Parenti e Paolo Virzì e la vedova di Carlo, Lisa.

Come regista, Carlo Vanzina è noto al pubblico per i film realizzati negli anni, mentre meno in vista è l’uomo, riservato e affettuoso, conosciuto soltanto da un gruppo più ristretto di persone: il documentario di Sarno è il ritratto di entrambi, scandito dal contributo emotivo di quanti gli sono stati sempre vicini e continuano a farlo, a cominciare dalle figlie Assia, Isotta e Virginie. Per l’occasione abbiamo avuto modo di intervista il regista, autore sulle pagine del nostro mensile della rubrica Supercinema, omonima del rotocalco cinematografico da lui stesso curato su Canale 5.

Mi sembra che il suo documentario nasca soprattutto dalla volontà di porre l’accento sul Carlo Vanzina più privato, all’indomani della sua morte.

Senza il Carlo pubblico non sarebbe mai esistito il Caro privato e viceversa, sono due facce della stessa persona. Era un uomo colto, un gran signore, appartenente a “quella borghesia illuminata che legge e crede nei valori della famiglia”, per citare la dichiarazione che fa suo fratello Enrico all’inizio del mio film. Possedeva un gran senso dell’umorismo e per una persona così ironica e brillante è inevitabile che le qualità professionali e umane s’intreccino, che le prime alimentino costantemente le seconde e viceversa.

Il suo film è un ampio catalogo di testimonianze da parte di registi, attori e colleghi, dalle cui parole viene fuori una valanga d’affetto davvero sterminata.

Non potrebbe essere altrimenti perché Carlo era una persona carina e dolce, lo è stato sempre anche con me nelle occasioni in cui la mia attività di cronista ci ha portato a incrociarci. L’abbraccio di Carlo verso i suoi interpreti è stato accogliente e circolare ed è stato anche l’ultimo grande regista in grado non solo di orchestrare ben settanta film ma anche di lanciare tutti i protagonisti dello star system italiano. Alcuni sono stati dei veri e propri debutti – come nel caso di Jerry Calà e i Gatti di Vicolo Miracoli, Diego Abatantuono, Raoul Bova, Carol Alt e si potrebbe continuare, la lista è veramente lunghissima – mentre altri, pur non essendo degli esordi assoluti o quasi, sono stati comunque fondamentali per la carriera dei diretti interessati. Monica Bellucci, ad esempio, è stata lanciata da I mitici – Colpo gobbo a Milano, nel 1994. Sono sicuro che Carlo, se non avesse fatto il regista, di mestiere avrebbe fatto sicuramente il talent scout!

Qual è il film dei Vanzina al quale è personalmente più legato?

Direi che il dittico Vacanza di Natale e Sapore di mare, dello stesso anno (il 1983, ndr), occupa per forza di cose un posto speciale. Il primo detiene un magico primato nell’immaginario della nostra generazione, anche grazie alle musiche che Carlo sceglieva personalmente andando a setacciare le discoteche e i piano bar, con enorme fiuto. Dolce Vita di Ryan Paris oggi è considerato un classico della disco music, ma all’epoca, nel 1983, era uscito da appena due settimane e non lo conosceva nessuno. Sapore di mare riempiva invece, in Italia, il vuoto del revival degli anni ’50, in scia a Happy Days che a quel tempo guardavamo tutti in televisione. Quel film è il nostro American Graffiti. Come spettatore indicherei sicuramente questi due titoli, mentre lasciando parlare il giornalista direi che Il pranzo della domenica è il film in assoluto più completo.

A questo proposito, è interessante notare come il suo documentario, avviandosi verso la conclusione, si concentri proprio su Il pranzo della domenica. Conversando con Enrico qualche giorno fa ho avuto modo di sentirglielo definire “l’ultima commedia all’italiana possibile”, cosa di cui sia lui che Carlo, a suo dire, erano all’epoca – nel 2003 – estremamente consapevoli. Lei cosa ne pensa?

Non è un caso che anche Paolo Mereghetti, presente nel film per un breve momento, arrivi a dare a quel film due palle e mezza, anziché la solita una. Da documentarista in questo caso mi sono limitato a documentare, senza fornire mie impressioni o pareri sui film di Carlo. Ad ogni modo l’ho sempre ritenuto un film particolarmente riuscito, c’è dentro tutto il mistero e il segreto della commedia all’italiana di una volta e la sua capacità di equilibrare, in maniera agrodolce, fatti comici ed eventi tragici.

Nel doc si sottolinea come il personaggio di Ghini ne Il pranzo della domenica, Massimo Papi, sia non solo una canaglia ma anche una diretta evoluzione, a quindici anni di distanza, del politico senza scrupoli Valenzani di Compagni di scuola di Verdone, interpretato dallo stesso attore. Non mi vengono in mente molti registi nostrani che si sarebbero presi la briga di omaggiare così esplicitamente il personaggio di un film girato da un collega, a riprova dell’umiltà di Carlo e della sua assenza di invidia di cui tanti parlano ancora oggi.

Credo sia parzialmente vero, nel senso che esistono alcuni casi analoghi in cui dei registi hanno pescato dal patrimonio di altri autori per tirare fuori da determinati attori delle corde poco suonate. Però è indubbio che in Compagni di scuola, forse il film più corale della nostra tradizione cinematografica dato che in scena abbiamo almeno quindici persone, Carlo Verdone usava per la prima volta Ghini in maniera estremamente cinica. In quel film era solo uno del coro, ne Il pranzo della domenica no, ma in entrambi i casi il personaggio si rifà a un mito assoluto tanto di Verdone quanto dei Vanzina che risponde al nome di Alberto Sordi.

Il film si chiude su una frase molto bella, che poi è anche la stessa sulla quale termina lo straziante libro di Enrico Vanzina Mio fratello Carlo, di recente pubblicazione da Harper Collins. Enrico dice: «Carlo mi diceva sempre che se fossimo nati in America l’avrebbero fatto fare a noi Ghost, non a Jerry Zucker». Secondo lei perché Carlo amava particolarmente quel film?

Carlo ha sempre avuto il sogno di mescolare il dramma alla commedia nostalgica. Questa componente malinconica è un elemento molto forte nel suo cinema e persino in Vacanze di Natale è presente, se pensiamo alla storia d’amore tra il personaggio di Claudio Amendola e quello di Karina Huff, che però non si consuma perché lei sta col riccone interpretato da Christian De Sica. A Carlo piaceva moltissimo questo tipo di tonalità. Il grande mélo è forse il suo unico rimpianto, perché è un genere che gli è sempre sfuggito pur avendolo abitualmente sfiorato. Ha provato a farlo ne La partita, con Faye Dunaway e Matthew Modine, ma quel film non ebbe il successo sperato e probabilmente da quel momento abbandonò per sempre l’idea. Ma nei suoi film ha continuato costantemente a inserire elementi melodrammatici. 

C’è un aspetto del suo documentario cui tiene particolarmente e e qualcosa che invece ha girato ma non ha inserito o, per qualche ragione, ha preferito tagliare?

Mi tocca fare una premessa: con tutto il materiale che ho accumulato probabilmente avrei potuto realizzare un serial di dieci puntate! Ho lavorato tutta un’estate, da giugno fino praticamente all’altro ieri, racimolando un’immensa mole di lavoro. Ho preferito rimuovere, tuttavia, i momenti in cui i protagonisti delle interviste, da Abatantuono a Bova, si commuovevano. Non volevo speculare sul dolore né rinunciare al mio tono allegro e scanzonato, simile in tutto e per tutto all’atmosfera di un film dei Vanzina: volevo che il mio prodotto avesse assolutamente quest’approccio. Quei frammenti avrebbero fatto scivolare il prodotto verso il lacrimevole e io non volevo assolutamente fare un certificato di morte, bensì un documentario su un regista che è e rimarrà vivissimo nella memoria di tutti.

Antonello Sarno

Foto: Getty

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