Festa di Roma: chiude The Place di Genovese, con Valerio Mastandrea arbitro in terra del bene e del male. La recensione
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Festa di Roma: chiude The Place di Genovese, con Valerio Mastandrea arbitro in terra del bene e del male. La recensione

La svolta drammatica del regista di Perfetti conosciuti, con un cast italiano all star

Festa di Roma: chiude The Place di Genovese, con Valerio Mastandrea arbitro in terra del bene e del male. La recensione

La svolta drammatica del regista di Perfetti conosciuti, con un cast italiano all star

The Place di Paolo Genovese

Fin dove siamo disposti a spingerci per realizzare i nostri sogni? O meglio: quali sono i confini etici e morali della nostre ambizioni, quali gli steccati oltre i quali il concetto di illecito cambia forma e diventa qualcos’altro?

Paolo Genovese per il suo nuovo film, The Place, è partito proprio da questo interrogativo, affidando il potere di  decidere delle sorti di una manciata di uomini a un deus ex machina interpretato da Valerio Mastandrea, le cui richieste, rivolte agli avventori di un bar omonimo del titolo, abbracciano eccome le tenebre, la colpa, il peccato.

Dopo Perfetti sconosciuti, la commedia corale sui cellulari e sui segreti contenuti al loro interno che aveva conquistato il pubblico italiano e della quale sono in cantiere una miriade di remake ovunque, il regista alza ancora il tiro: un altro film corale con un cast italiano all star ma anche una cornice più cupa e drammatica, o quantomeno più riflessiva.

I personaggi si alternano al cospetto del Dio in terra di Mastandrea (ma se fosse il diavolo, o la coscienza dell’umanità?), ombroso e stropicciato, tenebroso ma dotato, dato il tipo di carisma inconfondibile dell’attore, di un curioso disincanto. Parlano di loro, si confessano, si sfogano a questo arbitro in terra del Bene e del Male, citando De André. Pretendono, e poi agiscono. Fanno i conti con le conseguenze, ma provano anche a eluderle.

In questa girandola umana, per la quale il regista si è ispirato alla serie tv The Booth at The End, c’è un seriosità spiazzante, mai univoca e sempre sfuggente, che passa attraverso l’esperienza di uno sceneggiatore di commedia quale Genovese è. La violenza e i chiaroscuri dell’animo umano sono pertanto maneggiati con una leggerezza obliqua e mai esplicita, con un senso del tragico che non si fa mai davvero nero, ma produce ritratti umani attraverso poche e rapide pennellate. Perché i vari attori (menzione speciale per Papaleo e per il solito Borghi) si alternano di continuo e devono essere il più ficcanti ed esaustivi possibile nello spazio che hanno a disposizione.

Forte anche qui di un’idea high concept come nel film precedente, ovvero di uno spunto di trama molto forte e immediato da descrivere, Genovese prova a prendere per mano lo spettatore, a trascinarlo verso qualcosa di sorprendente. Alla domanda «da che parte stai?», Mastandrea risponde semplicemente «da questa», certificando senza troppe cerimonie il proprio senso di responsabilità, la freddezza di chi è al di qua della scrivania, in ruolo di potere. E in fondo Genovese fa un po’ la stessa cosa, si ritaglia un punto di osservazione privilegiato – quello del regista autorevole, distaccato – da cui squadrare un valzer di individui e di caratteri.

Il progetto è ambiziosissimo, anche se qua e là il film si fa incerto sul registro da prendere, risulta fumoso e contraddittorio, poco efficace e un po’ stonato. I problemi sono soprattutto nell’ultima parte, quando si dovrebbero far venire i nodi al pettine e invece non tutto quadra, qualche personaggio si eclissa frettolosamente e rimane addosso una lieve sensazione di incompiutezza. Va però in ogni caso benedetta e apprezzata la sfida di un regista di commedia che prova, in un paese come il nostro che della risata al cinema ha fatto l’unico diktat di un intero sistema produttivo, di fare qualcosa di diverso, peraltro sull’onda del successo di una commedia che ha incassato 17 milioni di euro e che poteva essere capitalizzata con qualcosa di più facile e immediato.

Un cineasta che sceglie di non sedersi, di evitare per una volta la romanità e di prediligere un tocco europeo, di gettarsi da un piano molto alto (la reazione del botteghino per questo film sarà un dato interessantissimo), di ricorrere alla sola forza della stasi e del dialogo, di un bar e un tavolino e nient’altro. Di dare da mangiare ai mostri, ma soprattutto di guardargli negli occhi anche a rischio di accecarsi.

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