Come una rockstar, come Cristiano Ronaldo, come Leonardo DiCaprio la settimana dopo l’uscita di Titanic: gli effetti di David Lynch sulla gente sono impressionanti. A Roma per ricevere il premio alla carriera, il regista di Mulholland Drive e Twin Peaks (ma c’è davvero bisogno di ricordare per quale motivo è famoso?) è stato accolto da una folla adorante, 1.200 spettatori che pendevano dal suo ciuffo e da ogni parola che usciva – con i suoi classici, dilatatissimi tempi – dalla sua bocca. È un fenomeno incredibile, quasi inspiegabile, considerando che stiamo parlando di un autore che ha fatto di cripticità e astrazione i suoi marchi di fabbrica; poco importa: la gente ama Lynch, e Lynch ama essere amato dalla gente.
Stiamo pur sempre parlando di Lynch, e infatti anche la masterclass che ha preceduto la consegna del premio, la “lezione di cinema” nella quale il regista ha ripercorso la sua carriera, ha preso una strada tutta sua. Cinque clip tratte da altrettanti suoi film, ovviamente scelte da lui, poi un dipinto e una scultura, che a suo dire ne hanno influenzato l’opera, e tre clip prese dai suoi film preferiti, quelli che più di tutti l’hanno ispirato a fare cinema. Un po’ di tutto, perché Lynch è un artista rinascimentale, regista, pittore, musicista: si nutre di idee e le dà in pasto al pubblico, e non importa da dove gli vengano e come decida di realizzarle.
Si parte con Eraserhead, il suo primo lungometraggio, e si parte quindi dagli inizi: Lynch, che prima di darsi al cinema frequentava una scuola d’arte, ha raccontato che «non andavo spesso al cinema, al tempo non ero un fanatico di film; la mia maggiore ispirazione in quegli anni veniva dalla città di Philadephia (dove Lynch frequentava la Pennsylvania Academy, ndr). È una città che amo per tutte le ragioni sbagliate: è sporca, spaventosa, corrotta, violenta e folle. Amo la sua architettura, i colori degli interni, quelle stanze di un verde strano e alieno e con proporzioni bizzarre, amo i mattoni coperti di fuliggine; Philadelphia è un bellissimo ambiente industriale, e il mondo di Eraserhead è nato lì».
La seconda clip scelta da Lynch viene da Velluto Blu, una delle due collaborazioni del regista con Dino de Laurentiis (l’altra è Dune). La leggenda vuole che Lynch abbia preteso libertà creativa assoluta sul film, e Lynch conferma che «ho firmato il contratto di Dune sapendo che non avrei avuto l’ultima parola, e sapevo anche che non era la cosa giusta da fare… ma l’ho fatto lo stesso. Quindi quando è arrivato il momento di fare Velluto blu ho deciso che avrei accettato solo se Dino mi avesse lasciato il final cut, e fortunatamente è andata così».
Il discorso si sposta – un po’ casualmente – sulle idee e sul processo creativo di Lynch, che si lancia nella più classica delle spiegazioni “alla Lynch”: «Le idee arrivano, tutto qui. Per me scrivere è la nascita di un’idea, che vedo immediatamente realizzata su una sorta di schermo mentale; poi la trascrivo a parole e se quando le rileggo l’idea originale mi torna in tutta la sua potenza so che ho fatto la cosa giusta. Le mie idee sono frammenti, è come essere in una stanza e nell’altra stanza c’è un puzzle, completo, perfetto; poi qualcuno prende un pezzo del puzzle e lo tira nella tua stanza, e tu prendi nota. E pezzo dopo pezzo, idea dopo idea, ricomponi il puzzle finché non hai una sceneggiatura. Dopodiché si tratta solo di tradurre queste idee, queste parole, in cinema, e sintonizzarsi con tutti quelli che stanno lavorando con te. Fare cinema è seguire tutti insieme, in perfetta sintonia, una strada che ti è stata mostrata da un’idea».
https://www.youtube.com/watch?v=qZowK0NAvig
David Lynch è anche un istrione, uno che si diverte a giocare con le aspettative del pubblico e – nel caso della sua masterclass – di chi gli fa le domande. Dopo la proiezione della clip di Strade perdute che vedete qui sopra, Antonio Monda, direttore del festival, gli spiega che lui ha molta paura di questa scena, e gli chiede se anche lui crede che sia una sequenza spaventosa e inquietante. La risposta di Lynch? «No, mi piace quando la gente mi viene a trovare a casa!». Si torna poi a parlare di idee, e alla domanda «come ti è venuta l’idea di Strade perdute?» la risposta di Lynch è disarmante nel suo candore: «Non so come mi vengano le idee. Una mattina ti svegli e sei senza idee, passa un po’ di tempo e continui a essere senza idee, poi all’improvviso ecco un’idea. Tutto qui».
https://www.youtube.com/watch?v=fKM8zdG1a9Q
Si arriva poi al film che forse più di tutti l’ha consacrato presso il grande pubblico, Mulholland Drive, che secondo Lynch è legato a Strade perdute e INLAND EMPIRE perché «sono tutte e tre storie ambientate a Los Angeles». E quindi è inevitabile, dopo aver sentito la sua opinione su Philadelphia, chiedergli che cosa pensi della città degli angeli: «Ci sono arrivato nel 1970, in piena notte. La mattina dopo sono uscito dal mio appartamento e per la prima volta ho conosciuto la luce di Los Angeles: era così bella che sono quasi svenuto, amo la luce a LA, amo il fatto che la città sia così espansa, ti dà una sensazione di infinito e di libertà. E poi la amo perché era la casa dell’età dell’oro del cinema, e l’atmosfera di quell’epoca ogni tanto torna in vita ancora oggi, quando di notte germogliano i gelsomini. Insomma, amo Philadelphia per la sua bruttezza e Los Angeles per la sua bellezza».
Prima di arrivare al cinema, Mulholland Drive doveva essere un prodotto per la Tv: è naturale chiedergli se ci siano differenze nel lavorare per il grande o per il piccolo schermo, e la risposta di Lynch è un serafico «no, è esattamente la stessa cosa». Poi, dopo essersi goduto la risata del publico, Lynch si corregge: «Ci sono ovviamente delle piccole differenze: per la Tv hai la possibilità di scrivere una storia che continua, mentre ogni film finisce. Quando lavori per la Tv, poi, l’immagine e il suono non hanno la stessa qualità di quelli del cinema, anche se in questo senso i miglioramenti sono evidenti e sempre più rapidi». E visto che si parla di mezzo e non di contenuto, «siamo tutti d’accordo che la pellicola è straordinaria e bellissima, ma è pesante, si sporca, si strappa, si rovina, è faticosa da usare; il digitale, invece, è più vicino alla pellicola ogni giorno che passa, e ti permette di fare milioni di cose anche dopo aver girato: ti apre un mondo meraviglioso, è come la pittura, ti permette di manipolare l’immagine come con la pittura puoi manipolare la tela. E amo anche l’alta definizione: non è vero che fa vedere troppo come dicono alcuni, né che è troppo plastica e poco organica. Ormai le camere digitali si avvicinano sempre di più alla sensazione organica della pellicola, e soprattutto con il digitale puoi dare il feeling che vuoi a quello che giri».
Quello che vedete è il quadro preferito di David Lynch, o almeno dovrebbe: «Veramente non ho scelto io questo quadro, ma amo molto Francis Bacon, per me è uno dei più grandi pittori di sempre, amo il modo in cui distorce la figura umana; quello che Bacon fa con aree veloci e lente all’interno dello stesso dipinto, con i fenomeni organici, per me è incredibilmente bello». Per quel che riguarda la sua pittura, invece, «non tutte le idee che mi arrivano sono per il cinema, altre mi vengono per la pittura, per esempio, e ogni volta che ne ho una che mi colpisce corro a realizzarla: a quel punto è una questione di azione e reazione, io metto giù l’idea, il dipinto reagisce e vado avanti così». Per poi concludere con «ultimamente mi piacciono molto i dipinti brutti».
Lynch è anche scultore, e «Kienholz: è un altro che realizza i fenomeni organici in un modo bellissimo. A me poi piacciono le cose tridimensionali, a volte faccio buchi nei miei dipinti e ci infilo delle cose che vanno in profondità, o che escono e danno un’altra dimensione all’opera».
Si torna poi a parlare di cinema, e di quello che piace a Lynch in particolare. Cominciando con una scelta curiosa all’interno della filmografia di uno dei più grandi registi di sempre (del quale purtroppo manca su YouTube la clip selezionata da Lynch: vi dovrete accontentare di un’altra scena).
Ed è qui che Lynch dice una frase che chiunque si sia mai lamentato di un film perché “è diverso dal libro” dovrebbe marchiarsi a fuoco sul braccio. A domanda «il mondo letterario sostiene che il film sia rapito dalla presenza di Peter Sellers e non rifletta la visione di Nabokov, cosa ne pensi?» Lynch risponde che «forse è vero, ma James Mason fa altrettanto. Kubrick è meraviglioso sempre e comunque, Lolita è un film perfetto del quale amo tutto, l’ossessione di Humbert, gli umori, i luoghi, la recitazione, i personaggi, il ritmo, è tutto bellissimo; non credo che la fonte sia importante, è un film che è nato da un libro ma è diventato… questo, e io lo amo per questo».
«Viale del tramonto è un film dell’orrore?» chiede Monda a Lynch, spiegando che in fondo è la storia di un tizio che entra in un castello gotico e non ne esce vivo. «Per me è un film triste, pieno di desiderio per qualcosa che non tornerà mai più». Poi, il colpo da maestro: c’è una scena in Viale del tramonto nella quale Cecil B. DeMille urla al telefono «get me Gordon Cole!» – il nome del personaggio di Lynch in Twin Peaks. Viene da questo film? «Certo, e vi racconterà una storia. Billy Wilder lavorava ai Paramount Studios, e se si guida lungo Melrose, o una di quelle strade che vanno da est a ovest e portano ai Paramount, si incrociano necessariamente altre due strade: una si chiama Gordon, l’altra Cole. Credo che Wilder abbia preso da lì il nome».
Prima di arrivare all’ultima clip arriva il momento della domanda, probabilmente immancabile, sui sogni (che dovrebbe darvi un’idea di quale sia la terza scelta). Lynch spiega che «amo i sogni e la logica dei sogni, che per me solo il cinema può rappresentare. La logica dei sogni è vedere qualcosa che si muove, sapere che cosa significa ma non riuscire ad articolarlo a parole; come provare a spiegare un sogno a un amico: potete anche metterlo a parole, ma l’altro non avrà mai la stessa esperienza che avete avuto voi». E quindi, i sogni: qui lasciamo che a parlare sia solo Lynch, che su questo film e sul suo regista ha raccontato un aneddoto meraviglioso.
«Fellini è uno dei più grandi maestri di cinema di sempre, ogni suo film è un’opera d’arte. L’ho incontrato due volte. Una volta ero a cena con Silvana Mangano, Isabella Rossellini e Marcello Mastroianni – una cena a base di soli funghi, di ogni forma e dimensione. Quella sera ho detto a Marcello quanto amassi Fellini e la mattina dopo lui mi ha mandato una macchina e ha organizzato di farmi passare l’intera giornata a Cinecittà con Fellini. Sono andato a pranzo con lui in un ristorante e ricordo che c’era una donna con un seno incredibile, gigantesco – come in un film di Fellini, appunto. Anni dopo, era il 1993, ero a Roma a girare uno spot per la Barilla insieme a Gerard Depardieu, e il direttore della fotografia dello spot era lo stesso che avevo conosciuto al tempo del mio primo incontro con Fellini (Tonino Delli Colli, ndr), che mi disse che il regista era in un ospedale a nord ma sarebbe stato presto trasferito a Roma. Gli chiesi se si potesse andare a dirgli ciao e lui mi rispose “non vedo perché no”, quindi il venerdì successivo siamo andati a trovarlo in ospedale. Nella sua stanza c’erano due letti, e Fellini tra i due, in sedia a rotelle, in compagnia di un giornalista di nome Vincenzo (Mollica, ndr). Mi sono seduto di fronte a Fellini, gli ho preso la mano e abbiamo parlato per mezz’ora: mi ha raccontato di quanto stesse cambiando il cinema e il mondo in generale, che quando era più giovane e andava al bar a fare colazione i giovani intorno a lui parlavano di cinema, mentre ora, mi disse, parlano solo di Tv e non mi riconoscono neanche più. La cosa lo intristiva molto. Prima di salutarlo gli dissi “il mondo intero aspetta il suo prossimo film, Mr. Fellini”, e quando uscii dalla stanza (Vincenzo mi ha raccontato questa storia anni dopo) il regista disse “questo è proprio un bravo ragazzo”. Era venerdì sera, due giorni dopo Fellini entrò in coma e due settimane dopo morì».
Si conclude in gloria: Paolo Sorrentino («Ho la febbre ma per Lynch sarei venuto anche in barella») sale sul palco e consegna a Lynch il premio alla carriera, il pubblico impazzisce, Lynch ringrazia e se ne va. Come una rockstar.
© RIPRODUZIONE RISERVATA