La misura del successo di Borg McEnroe è nella capacità di Janus Metz di intridere di tensione un evento sportivo il cui risultato potete rivedere su YouTube quando volete.
Anarchico e travolgente, il film sulla rivalità più famosa della storia del tennis è la risposta, a pallate in faccia, al Rush di Ron Howard: la storia di due uomini classicamente diversi e in fondo uguali, la parabola di un avvicinamento che diventa comunione, persino, volendo, una riflessione su come non sia la natura ma l’educazione a formare un uomo.
È un film di contrasti: Borg è freddo e calcolatore, fissato con tic e rituali da ripetere sempre uguali per pavimentare la strada verso la vittoria, McEnroe è una testa calda, che insulta gli arbitri e il pubblico e che alla preparazione zen preferisce un festino in discoteca, o un hamburger a letto. A separarli c’è una rete (Metz non mostra mai il campo da tennis intero fino all’ultimo atto, quando i due finalmente si scontrano), ma anche un oceano fisico e culturale: Borg è svedese, di umili origini, e si è guadagnato il campo e la fama con il talento e la capacità di soffocare ogni emozione per concentrarsi solo sul movimento della pallina; McEnroe è ricco, il genio di famiglia, schiacciato dalle aspettative paterne, il più classico degli atleti che usa lo sport per sfogare l’energia repressa. Metz sembra voler raccontare tutto questo nel modo più didascalico e commestibile possibile: le scene dedicate a Borg sono lente, meditative, gelide, mentre la vita di McEnroe è un turbine di alcol, droga e parolacce; l’infanzia dell’uno (prendere a pallate la porta di un garage per allenarsi) è l’opposto polare di quella dell’altro (al quale gli amici dei genitori chiedono di esibirsi in piccoli prodigi matematici per il loro divertimento). Ghiaccio e fuoco, cervello e cuore: già visto mille volte, se fosse tutto qui.
Ovviamente non è tutto qui, perché al di là del match che funge da punto focale dell’opera (tutto converge sulla finale di Wimbledon del 1980) quello che interessa a Metz è dimostrare come i due siano, in fondo, la stessa persona. Al McEnroe sboccato dei tornei ufficiali fa da contraltare, dapprima timidamente, poi con sempre maggiore violenza, il Borg degli esordi, una furia incontrollabile che viene espulsa dall’accademia di tennis dove sta muovendo i primi passi. Alla star svedese che sfugge agli autografi e all’attenzione delle fan si oppone l’americano pragmatico che vorrebbe parlare di tennis con i giornalisti, non di rivali e rivalità. Le già citate feste a base di alcol e droga? Ci finiscono entrambi, prima o poi (eccezionale in questo senso il Caronte Vitas Gerulaitis di Robert Emms), e quella che sembrava la più simmetrica delle rivalità si fa via via più pasticciata, più sfumata, finché quello che rimane è la figura (archetipica ma sempre potente) del talento schiacciato dalla fama, che vorrebbe solo fare quello che gli viene meglio ed è invece costretto a piegarsi alle regole dello star system – «Voi tennisti siete rockstar!» dice a Borg (o è McEnroe?) uno dei mille uomini in completo elegante che passano per il film senza lasciare alcun segno. Non sarà l’idea più originale in circolazione, ma è dannatamente incisiva.
Il merito è, ecumenicamente, di tutti quanti. Di Sverrir Gudnason che si prende sulle spalle il peso del film e rischia di trasformarlo, senza mai alzare la voce, in uno one man show. Di Shia LaBeouf, spaventosamente in parte nel ruolo dell’outsider caciarone e odiato da tutti: è sua la parabola più interessante del film, ed è eccezionale il controllo che ha sul personaggio. Del resto del cast, che sa di doversi fare da parte per lasciare la scena ai due che danno il titolo la film. E anche, forse soprattutto, di Janus Metz, che abbandona quasi subito l’approccio scolastico delle prime scene per lasciarsi andare all’anarchia: spezzetta il racconto, sovrappone passato e presente senza soluzione di continuità, alza spesso il volume della radio, ritrae uno sport infilmabile come il tennis nell’unico modo possibile, occupandosi di una sola metà campo per volta, fissando la camera sulla faccia e sulle braccia e sulle gambe dei suoi protagonisti – fino all’esplosione finale, quando i due si ritrovano sullo stesso campo e Metz apre lo sguardo per abbracciarli entrambi. Non riesce pienamente nell’impresa impossibile di trasferire il cinema sul campo da tennis: il match finale è spesso confuso e funziona solo a tratti, e mai quando Metz stringe l’inquadratura o prova a giocare di montaggio, ma gli si perdona tutto quando l’ultima palla tocca l’erba, Borg trionfa per la quinta volta (è considerato uno spoiler?) e il film tira le fila. Nell’unico modo possibile: silenziosamente e controllando le emozioni. Borg si è dimostrato una volta di più il più grande di tutti, McEnroe è diventato un giocatore di tennis e non un fenomeno da baraccone, uno si ritirerà dalle scene di lì a un anno, l’altro dominerà la scena per i successivi quindici anni. Sipario e applausi.
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