Diaz – Don’t clean up this blood è arrivato a Berlino con il racconto della «notte che cambiò tutto, che rappresentò il cortocircuito della democrazia nel nostro Paese». A parlare è il regista Daniele Vicari, che nel suo film narra la cronaca dei fatti che avvennero il 19 luglio del 2001 a Genova durante il G8. Da allora, sostiene Vicari, raccontando la genesi del film passato ieri alla Berlinale nella sezione «Panorama», il nostro Paese non è stato più lo stesso e le istituzioni si sono ripiegate in un costante ribaltamento della verità, che ha provocato la maggior parte dei danni di cui ancora oggi siamo testimoni. Nel cast spiccano Claudio Santamaria nei panni di Max Flamini, vicequestore aggiunto al primo reparto mobile di Roma, l’unico con il coraggio di contravvenire agli ordini e capace di interrompere se pur tardivamente il massacro, ed Elio Germano, nelle vesti di un giornalista che, dopo la morte di Carlo Giuliani, decide di andare a Genova per accertarsi con i suoi occhi di cosa stia succedendo.
Il film è prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci (uscirà al cinema il 13 aprile) e la storia della sua realizzazione è stata assai impervia, dal momento che nessuno ha voluto essere coinvolto nel progetto. «Sono scappati tutti, distributori, produttori, banche e privati. Le cosiddette major non hanno voluto neppure leggerlo» ci spiega Vicari, che aggiunge: «Alla fine devo ringraziare Procacci per aver rischiato il tutto per tutto per questo film».
BM: Che cosa ha provato nel presentare il proprio film al Festival Berlino?
D.V.: «Sono davvero un bel po’ emozionato. Rappresentare il nostro cinema presso una platea internazionale mi fa sentire onorato».
BM: Da chi è partita l’idea del film? Da lei o da Procacci?
D.V.: «È nata da una telefonata avvenuta tra me e Procacci l’indomani della sentenza di primo grado del processo per i fatti della Diaz, quando alcuni famigliari delle vittime gridarono: “Vergogna! Vergogna! Non verrò mai più in questo Paese”. Ci siamo sentiti al telefono e chiesti cosa potessimo fare. E così abbiamo deciso di raccontare quei fatti nei film».
BM:Che cosa si prova nel girare scene così forti?
D.V.: «Era difficile girare rimanendo distaccati. Se fai un film horror sei consapevole del gioco linguistico a cui partecipi, ma se c’è un correlativo oggettivo è molto più difficile rimanere distanti emotivamente. Anche perché mi è capitato di incontrare persone che non si sono mai più riprese da quei fatti».
BM: Il film nasce dalla lettura degli atti processuali, da interviste ai manifestanti e alla polizia. Che conclusione ha tratto alla fine delle sue indagini?
D.V.: «Si è trattato di un momento in cui sono precipitate tutte le nostre contraddizioni e le nostre idee sul mondo. In quel preciso momento c’erano delle persone che stavano manifestando un pensiero. E sempre in quel preciso momento si è deciso di sospendere i diritti della democrazia, impedendo che manifestassero».
BM: Che cosa è successo davvero alla Diaz? Secondo lei come è andata davvero?
D.V. : «Sicuramente ci sono delle grosse responsabilità. Quando il Vicequestore di Bari interrogato dal PM dice che le stesse molotov ritrovate alla Diaz le aveva trovate lui a Corso Italia sta evidentemente confessando come sia stata ricreata una messa in scena».
BM: Tra i manifestanti c’erano diversi black bloc e molti supposti sovversivi…
D.V.: «Ammesso e non concesso che fossero tutti black bloc; fino ad ora questi manifestanti si sono sempre scagliati contro gli oggetti e non le persone. Ma quando arresti degli individui e li torturi senza neppure chiedergli il nome, dimostri totale ignoranza dei principi democratici fondamentalia; allora non hai più alcuna giustificazione a sostenerti».
BM: Lei ha parlato anche di accanimento verso le donne. Secondo lei è è un retaggio della nostra cultura machista?
D.V.: «Diciamo che in momenti come quelli viene fuori il meglio e il peggio delle persone. E rispetto a molte ragazze sono state fatte violenze che rasentavano lo stupro».
BM: Perché è accaduto? E perché proprio in Italia?
D.V.:«È successo in un clima politico e istituzionale che poi ci ha dominati per i successivi dieci anni. Un ribaltamento sistematico del principio di realtà che ha determinato le conseguenze spiacevoli che dobbiamo fronteggiare oggi. Ma non è una storia solo italiana. Sotto l’egida degli 8 Grandi della Terra fu deciso che si doveva bloccare quella manifestazione a ogni costo. Fu un avvenimento che precedette l’11 settembre e che contribuì a creare quel clima di sospetto e di violazione della privacy, che in seguito all’11 settembre è diventato la regola».
BM: Che cosa l’ha colpita di più degli atti dei processi che ha dovuto visionare?
D.V.: «Il processo è durato moltissimo tempo e ogni qualvolta le persone coinvolte, soprattutto gli stranieri, si ritrovavano davanti a un consesso pubblico a raccontare quello che era loro successo mi provocava un grosso scossone emotivo. Alcuni si sono dovuti curare presso gli stessi centri anti-violenza in cui vanno i soldati che tornano dall’Iraq».
BM: Perché nessuno ha chiesto scusa secondo lei ?
D.V.:«Perché il Governo di allora ha instaurato un sistema in cui le verità più drammatiche sono state negate e cancellate col sorriso. Nessuno si prende più la responsabilità di quello che fa e dice, anzi utilizza tutta una serie di perifrasi per aggirare la verità»
Che tipo di rapporto ha avuto con le forze dell’ordine?
D.V.: «Mi ha colpito molto l’inconsapevolezza dei poliziotti semplici, quelli che prendevano gli ordini. Ho capito che a un certo punto, quando si è scatenato lo scontro, ha prevalso la logica del: “Quanto voglio perdere? Quanto sono disposto a rischiare?”»
Come mai il film ha il sottotitolo in inglese Don’t Clean Up This World?
D:V.: «È una frase che ragazzi di Amnesty International hanno appeso con un cartello su un muro della Diaz. Sembra il sottotitolo di un film horror ed è anche per questo che l’ho voluta».