Tutte le news dal Festival di Berlino 2013. Best Movie seguirà i film più importanti e vi racconterà le conferenze stampa più interessanti.
Il film
Un giovane ex attore di soap opera “a disagio“ con il mondo (James Franco), la sua migliore amica, pittrice con il vizietto di travestirsi da uomo (Catherine Keener), una sorella che parla a fatica (Patricia, interpretata da Fellon Goodson, anche produttrice esecutiva del film) e vive in un mondo tutto suo, ma anche un vicino che nasconde a fatica le sue tendenze omosessuali (David Strathairn) e passa ore a rivedere la soap intepretata dal giovane attore. Un assortimento di personaggi bizzarri e sofferenti che il regista Carter (anche autore della sceneggiatura) ritrae tuffandosi senza rete in queste menti più o meno disturbate per cercare di ridare, attraverso immagini e parole (e un occasionale commento “scientifico” tramite voice over), il senso di una alienazione che lotta per mantenere il contatto con la realtà prima di tutto atttraverso l’arte. Il procedere attraverso i capitoli di questa (impossibile) ricerca di espressione e accettazione di sè non è, va detto, esattamente agevole. La definizione di un tempo e di un luogo dell’azione è volutamente confusa: l’impressione generale è di trovarsi negli anni Sessanta, ma poi sono volutamente inseriti elementi riconducibili ai Cinquanta e ai Settanta (come l’abbigliamento di Catherine Kenner), il percorso di James è costruito seguendo i labirinti della sua mente e della sua percezione, talvolta perfettamente logica, altre totalmente personale. In ogni caso l’impressione è che le concessioni a un concetto tradizionale di narrazione siano fatte con il contagocce…
Sotto, il trailer di Maladies:
La conferenza stampa
Del resto più che un film Maladies è stato pensato come una sorta di opera visiva da parte del suo autore, Carter, artista a tutto tondo che ha concepito il progetto come una riflessione a più voci sul tema della malattia mentale, sulla sua connesione alla creatività e di conseguenza anche sul ruolo e la vocazione dell’ artista. Un progetto ambizioso reso possibile anche dalla conoscenza e dall’ amicizia che lega Carter a James Franco fin dai tempi di Erased James Franco, un progetto in cui l’attore ha reintepretato tutti i suoi ruoli oltre a un paio di altri. In questo caso, poi, per rendere l’opera più digeribile a un pubblico se non commerciale almeno festivaliero, Carter ha deciso di compattarla, dandole un maggiore senso di racconto senza per altro far perdere la sensazione che il pubblico debba fare parecchio per congiungere i punti di questo racconto fatto (e scritto, stando all’autore) di situazioni e immagini suggestive più che di una storia in senso tradizionale.
Proprio per questo nulla è casuale di quanto appare sullo schermo: né l’arredamento della casa dove i personaggi principali vivono la loro bizzarra convivenza (tapezzata di quadri dello stesso Carter oltre che piena di oggetti e opere d’arte suoi e di altri artisti contemporanei) né gli oggetti con cui James, Catherine e Patricia si rapportano. Di fatto, come ha confessato l’autore in conferenza stampa: «Questo lavoro ha qualcosa a che fare con una performance. Anche se non abbiamo usato molta improvvisazione qualche volto ho chiesto a James di mettere un auricolare per suggerirgli battute diverse da quelle previste – come se usassi lui per far sentire direttamente la mia voce nel film – e vedere come regiva Catherine». La chiama così, per nome, come del resto fa con gli altri interpreti (compreso l’assente Franco, qui a Berlino impegnato in un tour de force di interpretazioni e promozione), e nel caso dei due protagonisti l’uso si è trasferito anche al film, per dare più familiarità e immediatezza alle riprese. Necessaria anche per compensare i tempi strettissimi, appena 12 giorni. Il cortocircuito tra realtà e finzione, del resto, non si ferma qui. Franco ha fatto una breve apparizione della soap opera General Hospital per rendere più autentico il suo ex attore, creatura fragile e ipersensibile che incarna più di tutte le altre le contraddizioni della malattia mescolata alla creatività. «Il personaggio di James non è autistico e non è schizofrenico, ma un insieme di cose che non possiamo ridurre a dei sintomi da manuale delle malattie mentali, ma proprio la sua fragilità gli rende più urgente la domanda sul lascito che un artista può portare al mondo, nonostante o forse soprattutto per l’handicap che lui e Catherine hanno». Da qui nasce il Patto che lega i due e li impegna a finire il lavoro uno dell’altro nel caso la morte arrivi a interrompere quello che hanno cominciato, un romanzo autobiografico e filosofico lui, una serie di quadri lei…
La malattia diventa qui protagonista, lotta per esserlo, ma la visione che Carter ne dà è tutt’altro che pietistica. «Una volta molte malattie non erano diagnosticate. Si diceva che uno era strano e basta. Oggi non è più così, ma all’ estremo opposto si pensa di risolvere tutto con i farmaci, che però troppo spesso inibiscono la creatività». Un po’come, ha dichiarato Carter sorprendendo l’uditorio dei giornalisti, «uscire allo scoperto ha cambiato defintivamente la dinamica creativa di un artista gay come me…» e, fedele al suo assunto di partenza, ha lasciato che ognuno interpretasse questa dichiarazione spiazzante in modo personale!
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