Torna dopo due anni alla Berlinale (era già stato qui nella sezione Panorama nel 2011 con The Guard, in Italia un po’ superficialmente titolato Un poliziotto da happy hour) il regista irlandese John Michael McDonagh. È di nuovo in coppia con Brendan Gleeson che da poliziotto con il debole dell’ alcool si trasforma qui in un prete sincero e onesto, posto di fronte a una minaccia che mette duramente alla prova la sua fede. Con Calvary, McDonagh riesce a creare un thriller potente capace di affrontare temi seri e ponderosi tenendo il ritmo e non concedendo nulla a cliché o scorciatoie.
Padre James Lavelle è il parroco di un villaggio della contea di Sligo: bonario, ironico, pieno di umorismo e di misericordia, è un uomo che ha conosciuto il mondo: prima di diventare sacerdote in età ormai matura, è stato sposato ed è rimasto vedovo con una figlia che ora, ormai adulta, non cessa di causargli preoccupazioni.
Un giorno in confessionale, uno dei suoi parrocchiani gli rivela di essere stato lungamente molestato in giovanissima età da un sacerdote, un’ esperienza che ha segnato la sua vita per sempre. Ora che il suo aguzzino è morto, l’uomo ha deciso di vendicarsi uccidendo un prete buono, ossia padre Lavelle. Per questa ragione gli dà una settimana per mettere a posto i suoi affari; la domenica successiva lo ucciderà.
Padre Lavelle, che forse ha riconosciuto colui che lo vuole uccidere ma che comunque, anche di fronte alla sollecitazione del vescovo da cui va a confidarsi, rifiuta di denunciarlo, attraverserà la settimana più dura della sua vita, mentre i suoi parrocchiani, in un modo o nell’altro, mettono alla prova la sua fede in Dio e i suoi convincimenti più profondi. C’è l’adultera che non ha nessuna intenzione di smettere di “peccare”, il capo della polizia che intrattiene una relazione omosessuale, un condannato per omicidio e cannibalismo che vuole ottenere il perdono, il cinico infermiere che mette in questione l’esistenza di Dio e la Sua misericordia, un giovanotto che non ha successo con le donne ed è incerto tra il suicidio e l’arruolamento nell’esercito, un ricco speculatore che vorrebbe pulirsi la coscienza con una donazione alla Chiesa, e pure il suo coadiutore in parrocchia sembra più un contabile che un sacerdote con la vocazione. Non va dimenticata sua figlia Fiona, che è reduce da un tentativo di suicidio per una delusione sentimentale e che reclama come padre quell’uomo che per vocazione è diventato il padre di tanti altri.
Per tutti padre Lavelle ha una parola di misericordia, una battuta tagliente, un tentativo di redenzione, ma man mano che la domenica si avvicina (e l’assassino manda segnali per dire che fa sul serio) anche lui comincia cedere e mantenere la fede diventa sempre più difficile.
«Ho deciso di fare questa storia appena avevo finito The Guard. Allora in televisione si parlava tanto di molestie e abusi dei preti. Ero sicuro che sarebbero usciti tanti film sull’argomento e mi sono detto “e se invece facessi un film su un prete buono?» racconta il regista. Lo incalza Brendan Gleeson, lo straordinario protagonista: «Cosa significa essere una brava persona e indossare una “divisa” che e stata macchiata da altri? Per me è anche una questione di esperienza personale. Io alla scuola elementare avevo un bravo prete e una volta ho provato a indossare la sua veste. È stata una sensazione strana, sapeva di bontà».
«Adesso la sola vista stessa della talare genera un sospetto (come si vede in una bellissima scena del film, ndr) ed è per questo che abbiamo scelto questa veste un po’ arcaica che molti preti non usano nemmeno più. Volevamo un’immagine iconica» dichiara McDonagh. Che poi aggiunge: «Padre Lavelle è un uomo buono, ma non è uno stupido e nemmeno un uomo senza difetti. Ha i suoi demoni, il bere e anche un po’ di violenza. Ma è anche una persona che ha scelto questa vocazione con piena coscienza da persona di mezza età. Tutte le persone che incontra cercano di spezzare quest’uomo, costringerlo a dire che quello in cui crede non esiste, eppure se lui davvero cedesse, se perdesse la fede, sarebbe il loro maggior trionfo, ma anche la loro più grande tragedia. Sono tutte persone che vogliono essere salvate, ma non riescono a dirlo. L’Irlanda, dice il regista, è un paese che crede troppo e troppo facilmente. Però quello che dice il film è anche che quando uno ha finalmente un eroe poi lo tratta male. E invece sarebbe bello che la gente ricominciasse a credere che ci possono essere delle persone buone».
Brendan Gleeson, che è stato coinvolto nell’operazione fin dalla prima stesura della sceneggiatura, ha potuto dare il suo contributo anche allo sviluppo del personaggio. «È stato un grande privilegio. La scena migliore che è venuta fuori dalla nostra collaborazione è quella in cui lui telefona alla figlia prima del confronto con l’assassino». Ma per Gleeson c’è stata anche un’altra sfida: a fare la parte dell’assassino cannibale con cui si incontra in carcere c’era suo figlio Domhnall Gleeson (star in ascesa, era anche in Anna Karenina di Joe Wright). «Una situazione molto strana, è un momento in cui lui si confronta con il male; abbiamo deciso di non vederci per un giorno intero. Ci voleva del distacco».
McDonagh dice di non voler mandare messaggi con questo film («Io faccio film perché altrimenti mi annoio e perché mi tiene lontano dal bere. E poi anche uno come Graham Greene alla fine per me faceva entertainment»), ma per lui la scena finale è fondamentale, riguarda il perdono e la possibilità di vedere l’umanità di una persona. «Non è un film religioso, e non voglio fare la bandiera di nessuno, ma vuole parlare di qualcosa di metafisico: si tratta di una storia sulla fede, non sulla disillusione, e su come si possa credere nonostante tutto».
Sotto, il trailer di Calvary:
© RIPRODUZIONE RISERVATA