Mentre la guerra infuria in Europa (siamo nel ’43 e anche se si è già sbarcati in Normandia la strada per Berlino è ancora lunga) l’esperto d’arte Stokes (George Clooney) convince il Presidente Roosvelt che vale la pena impiegare un seppur ridotto numero di uomini nel recupero delle opere d’arte che i nazisti hanno razziato dai paesi occupati per riempire i musei del Terzo Reich. Ma bisogna anche cercare di impedire che l’esercito Usa distrugga tesori inestimabili della cultura occidentale così come accaduto per esempio con il Monastero di Monte Cassino, bombardato fino alle fondamenta nella risalita della Penisola, o L’ultima cena di Leonardo, salvatasi per un pelo dalle bombe alleate. Se sui “bombardamenti controllati” è difficile farsi sentire, va un po’ meglio con la prima parte dell’operazione, e così in quattro e quattr’otto ecco che Stokes, promosso tenente, organizza una sorta di “sporca dozzina” da buttare nella mischia alla ricerca di quadri e sculture. Sono tutti in età i Monuments Men (questo il nome di battaglia del gruppetto), ma pieni di buona volontà. Sono americani ma c’è anche un inglese (interpretato da Hugh Boneville in prestito da Downton Abbey) con qualcosa da farsi perdonare e un francese (Jean Dujardin, dopo The Artist un prezzemolino nelle produzioni made in Usa bisognose di un transalpino riconoscibile, lo si vede anche in Wolf of Wall Street). Facendo lo slalom tra imboscate e bombardamenti, o corteggiado belle curatrici di musei parigini (Cate Blanchett in splendida forma), senza farsi mancare un sorriso e una lacrima, porteranno a termine la loro insolita “caccia al tesoro”, recuperando Rembrant, Monet e Picasso fino nelle profondità delle miniere dove i nazisti hanno nascosto le opere d’arte… insieme all’oro sottratto agli ebrei nei campi. Con il bonus di fregare sul filo di lana anche i Russi, meno generosi dei patriottici statunitensi e decisi a prendersi tutto come risarcimento dell’invasione tedesca.
La quinta regia di George Clooney, da sempre un beniamino dei festival grazie all’innegabile capacità di gestire i rapporti con la stampa oltre che di radunare cast stellari da esibire sul red carpet, è un dichiarato omaggio ai film di guerra del passato. «Mi sono sempre piaciuti i film di guerra come tipo I Cannoni di Navarone. E poi dopo tanti film “cinici” quando mi è capitata questa storia, che parla di uomini per bene decisi a fare qualcosa di buono mi è sembrata una buona occasione». Un’occasione che non sarebbero stati in tanti a poter sfruttare. Convincere uno studio che «aveva senso fare un film che parla di arte non era facile, ma questo tema, quello della restituzione dei beni sottratti durante la Seconda guerra mondiale, in questo momento è caldo e così ecco il film». Una pellicola a cui, va detto, non mancano parecchie ingenuità, a partire dalla definizione dei suoi personaggi, bilanciata solo in parte dalla bravura e dalla convinzione degli interpreti: da Matt Damon a Bill Murray, passando per John Goodman e Jean Dujardin fino all’unica donna, Cate Blanchett, il cui personaggio è modellato su quello di una vera “salvatrice di opere d’arte, Rose Valland. Qualche dubbio anche sulla regia, corrette, ma mai davvero appassionante e commovente.
Nonostante le buone intenzioni, e le ripetute dichiarazioni in merito, infatti, nel mezzo di una guerra che ha lasciato sul terreno milioni di vittime (negli eserciti, ma naturalmente soprattutto nei campi di concentramento oltre che tra le fila dei civili e della Resistenza) è difficile far sentire l’urgenza della missione dei protagonisti. Anche perché le loro mosse, probabilmente per fedeltà agli eventi storici, non hanno certo l’impellenza di una missione decisiva o suicida. Sarebbe assurdo fare paragoni con l’epica postmoderna di Inglorious Bastards, ma è nel confronto con gli antecedenti indicati dallo stesso regista che la pellicola scricchiola un po’. «Ho voluto raccontare un evento mai accaduto nella storia, cioè dei vincitori che hanno rinunciato a spartirsi le spoglie dei vinti e invece hanno permesso che i beni trafugati tornassero là da dove venivano, per essere goduti da tutti e non solo da alcuni» ha ribadito Clooney prima di lasciarsi coinvolgere dai giornalisti presenti in commenti tra il serio (un commento addirittura alla guerra nel Darfur, paese per cui si è personalmente speso) e il faceto (rispondendo all’ennesima domanda sul suo essere sex symbol, ma allargando generosamente il complemento ai suoi compagni di set). E se in America il cast stellare ha già raccolto qualche successo (7 milioni di dollari nel giorno di esordio) nonostante le reazioni a dir poco tiepide dei critici, c’è da scommettere che la faccia da schiaffi di Clooney conquisterà il pubblico europeo a dispetto di tutto.
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