La 74esima edizione della Berlinale ha potuto senz’altro vantare di un concorso all’altezza degli anni precedenti, nonché una competizione che non sfigura con quella degli altri grandi festival cinematografici europei che la seguono. Le opere premiate qualche giorno fa, dal delirio fantascientifico di Bruno Dumont ne L’Empire fino all’ennesimo inno alla semplicità del poetico A Traveler’s Needs di Hong Sangsoo, sono di assoluto spessore.
Il sentore, fin dai primi giorni, era che anche un altro titolo fosse un serio contendente all’Orso d’Oro, ovvero Dahomey, documentario di un’ora e sette minuti diretto da Mati Diop, regista e attrice di origini senegalesi, già dietro la macchina da presa di quell’Atlantique (suo esordio) che la portò a vincere un Grand Prix Speciale al Festival di Cannes del 2019.
Si vociferava che una giuria capitanata da Lupita Nyong’o, originaria del Kenya, avrebbe condotto il breve lungometraggio alla vittoria. Se la previsione di molti si è rivelata corretta, portando Mati Diop a stringere tra le mani l’orso dorato, tale premio appare tutt’altro che immeritato.
Dahomey si concentra sulla restituzione al Benin di ventisei cimeli trafugati del Regno di Dahomey durante la guerra di colonizzazione e conservati presso il Musée du quai Branly di Parigi. L’approccio selezionato dalla Diop con cui trattare questo episodio della Storia contemporanea francese risulta adeguato ai codici espressivi e linguistici dell’epoca attuale.
Fin dai primi minuti di film si avverte un elemento inusuale rispetto alla media di documentari odierni, nei quali il regista scompare dietro la macchina da presa e conferisce il suo parere allo spettatore tramite la propria voce narrante: nel discorso vengono inserite le stesse opere, che prendono vita e soprattutto parola. Questa peculiare modalità espressiva inserisce un elemento di finzione nell’amalgama, ma non va a intaccare la veridicità della vicenda che viene raccontata.
La voce, dal timbro quasi spettrale nonché l’unica tra quelle presenti nel documentario a non parlare in lingua francese (sintomatico di un colonialismo i cui effetti sono ancora lampanti), illustra la frattura identitaria degli immigrati africani di seconda e terza generazione, sui quali pesa enormemente la pervasività della potenza francese, che ormai ne ha condizionato usi e costumi.
In questo ibrido tra realtà e finzione, che ricorda la formula che ha garantito la fortuna di prodotti audiovisivi come Atlanta, trovano posto anche i segmenti di osservazione, dove l’impronta della regista scompare dietro l’occhio della camera, riecheggiando la pratica del cineasta maestro di questo sguardo distaccato, Frederick Wiseman.
Qua a prendere parte sono i giovani contestatori, le nuove generazioni con la consapevolezza storica dei sessantottini, ma ormai intaccati nel pensiero e nell’agire dal paese in cui vivono. Tra i discorsi intrapresi fuoriescono argomenti insoliti, spesso denigrati dal cinema mainstream: tra questi la legittimità di luoghi come i musei (perplessità già espressa dal recente The Zone of Interest), edifici al servizio della memoria collettiva, ma anche attrazioni che mercificano oggetti e reliquie appartenenti a culture più indifese.
Se sul piano estetico si assesta su una generica semplicità, Dahomey consiste comunque in un’importante cartina tornasole che testimonia quanto la prevaricazione razziale si manifesti anche con forme e modalità più subdole e meno scontate, il tutto alla luce del sole.
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