All’inizio del ‘700, la regina Carlotta di Prussia (Antonia Bill) commissiona un ritratto del suo amato filosofo Gottfried Wilhelm von Leibniz (Edgar Selge). Con il procedere delle sedute, la regnante e il grande pensatore si imbarcano in una ricerca appassionata per scoprire l’essenza dell’arte, dell’amore e della verità nella pittura. Il primo pittore che tenta di ritrarre il filosofo fallisce, il maestro francese Hofmaler Delalandre (Lars Eidinger), toccherà alla pittrice fiamminga Aaltje van der Meer (Aenne Schwarz) imbarcarsi nell’impresa.
Subito dopo il meraviglioso documentario Filmstunde, in cui era tornato a incontrare alcune sue studentesse sessantottine 55 anni dopo l’ultima volta, il grande cineasta e totem del cinema tedesco Edgar Reitz si cimenta con la ricostruzione d’epoca, covata produttivamente da una lavorazione-gestazione lunga ben nove anni, di una vicenda settecentesca che mette uno davanti all’altra due figure paradigmatiche, tanto dell’esercizio della politica quanto di quello del pensiero (il budget inizialmente previsto era di 25 milioni di dollari, ma per economizzare ci si è concentrati su un singolo episodio, liberando così le potenzialità creative all’interno di un più ristretto raggio d’azione).
La regina Charlotte, dopotutto, ha amato il grande filosofo dell’Illuminismo Leibniz fin da quando era sua studentessa e fu proprio lui a insegnarle le gioie del pensiero e il godimento e l’arricchimento che ne può derivare. In compagnia del co-regista Anatol Schuster, Reitz mette in scena con grande minuzia le sedute del ritratto, in cui il tempo sospeso della performance artistica, evocato dalla costante presenza di clessidre messe lì a riflettere eloquentemente proprio sulla dimensione temporale delle “umane divine cose”, per dirla con Dante, si trasforma in un dialogo rivelatore, ammantato di finissima grazia intellettuale e statuaria rilevanza morale.
Cinema coltissimo e aulico, ovviamente in costume ma con uno sconcertante e lacerante sottofondo di attualità, Leibniz – Chronicle of a Lost Painting è un’altra chronik del regista dell’indimenticabile epopea di Heimat, abituato a confrontarsi coi massimi sistemi di narrazioni avvolgenti, ingombranti e definitive. Si tratta di un autore maestoso e maiuscolo per definizione, un gigante della storia della settima arte di fronte al quale, come ha osservato Nanni Moretti, è legittimo sentirsi minuscoli come registi.
In questo suo ultimo film-testamento, presentato nella sezione Berlinale Special della 75esima Berlinale, viene fuori soprattutto un’inequivocabile ossessione per la luce, come motore immobile di ogni visione, al cinema per antonomasia come altrove, ma anche quella per la riproducibilità intrinseca a ogni opera d’arte, che complice l’idea di illustrare la genesi di un ritratto pone uno squisito doppio livello di azione e lettura che anima Leibniz dall’inizio alla fine (accogliendo anche le ombre e i chiaroscuri di Caravaggio e Rembrandt).
La rilevanza della figura di uno dei più grandi filosofi dell’Occidente risiedette anche, come il film-kammerspiel di Reitz, ben racconta, nella sua capacità di porsi come crocevia tra il pensiero votato al proverbiale amore per la saggezza, cui si devono assunti come la monade e la convinzione che vivessimo nel migliore dei mondi possibili, ma anche l’invenzione del prototipo di calcolatrice meccanica e l’essere precursore del concetto di calcolo infinitesimale, alla base di molti sviluppi successivi in matematica e scienze computazionali, fino ad arrivare a intercettare addirittura la dimensione rivoluzionaria e novecentesca dell’inconscio.
Nel cuore del racconto, di vocazione ovviamente spiccatamente rosselliniana in termini “didattici”, c’è anche la pittrice Aaltje van der Meer, autrice di un ritratto perduto che intrattiene con Leibniz un rapporto privilegiato, in grado di configurare una seduzione reciproca in senso più che platonico e di dare vita a impetuose folate di saggezza, intuitività e spirito critico (con la consapevolezza che, come osserva lei stessa, spesso l’astrazione è necessaria per trovare la concretezza, specie quando un ritratto è incaricato di andare oltre la superficie e cogliere l’essenza profonda di qualcuno).
L’apparato filosofico di Leibniz viene poi fatto emergere per cenni sostanziali, dando così i giusti appigli anche allo spettatore più digiuno in materia e magari orfano di eventuali reminiscenze liceali, ma il suo aspetto più luminoso è ovviamente la preziosa e rara triangolazione tra arte, filosofia e cinema, con delle vertigini poetiche ed estetiche (la sequenza della camera oscura che incrocia il ritratto, per esempio) di quelle che solo i più grandi maestri sono in grado di dispensare.
Foto: ©if…Productions & ERF-Filmproduktion
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