Dopo la morte dell’editore Arthur Howitzer, Jr. (Bill Murray), lo staff di The French Dispatch, una rivista americana dall’ampia tiratura con sede nella città francese di Ennui-sur-Blasé, si riunisce per scrivere il necrologio di un uomo avaro tanto di parole quanto di complimenti, il cui monito pressoché unico ai suoi redattori era: «Non piangere».
Da questo momento di bilancio dell’attività editoriale scaturiscono quattro storie, firmate da altrettanti giornalisti e ciascuna delle quali corrispondente a una sezione del magazine: c’è un diario di viaggio sulla città con ben pochi imbellettamenti che s’intitola The Cycling Reporter (protagonista Owen Wilson); The Concrete Masterpiece, su un pittore criminoso, animalesco e pazzoide rinchiuso in una struttura psichiatrica (Benicio Del Toro), che ha una musa che posa nuda per lui (Léa Seydoux); Revisioni a un manifesto, sulle rivolte studentesche (con Timothée Chalamet e Frances McDormand); La sala da pranzo privata del commissario di polizia, con un rapimento e delle sofisticate atmosfere da giallo haute cuisine, e Edward Norton, Jeffrey Wright, Saoirse Ronan e Mathieu Amalric, tra gli altri, a prendervi parte come interpreti.
The French Dispatch è un considerevole salto d’ambizioni per il cinema di Wes Anderson, e probabilmente ne rappresenta un punto di non ritorno. Ispirandosi ad articoli e firme storiche dell’amato periodico statunitense The New Yorker (come si vede dalle copertine che puntellano i titoli di coda), ma spostando l’azione nel paese dove risiede da anni, la Francia, l’ultima fatica del regista de I Tenenbaum è un film decisamente bigger than life per slancio magniloquente, arditezza del tratto grafico, soluzioni visive e soprattutto per slanci bizzarri e fantasiosi.
I personaggi sono le consuete maschere bidimensionali incastrate in delle geometrie manieriste e impenetrabili, un po’ burattini e un po’ bambole di pezza, così studiate al millimetro da poter risultare al contempo ammalianti e respingenti. Stavolta, se possibile, lo sono anche più del solito (la cosa vale per entrambi gli aggettivi), perché l’ispirazione che muove Anderson è così onnicomprensiva da spingerlo ad usarli esplicitamente come pedine di un disegno più ampio.
Non che già non accadesse già altrove, ma a questo giro il cineasta texano fa proprio un preciso discorso, meta-riflessivo e intricato ma non per questo non godibile dall’inizio alla fine, sulla creatività e l’idealismo tanto della cronaca quanto dell’arte, mettendo insieme appunti, frammenti e visioni, tutti rigorosamente avventati e spericolati, di quelli che sembrano più film in uno. Ci sono anche bagliori di umanità e poesia inattesi, quei frangenti di dolcezza e tenerezza improvvise dei quali il cinema andersoniano è da sempre prodigo, ma a svettare sono sempre i lussureggianti fondali, le scenografie strampalate, gli oggetti catturati – e addirittura infilzati – dentro una “messa in quadro” sempre perfettibile, a metà strada tra appropriazione e filologia.
In The French Dispatch Anderson aggiunge, ai consueti movimenti sull’asse e alle inquadrature simmetriche chiaramente proverbiali, degli split screen metà a colori e metà in bianco e nero al fine di giustapporre epoche storiche lontane, inserti animati che vanno a coprire le sequenze d’azione verosimilmente più spettacolari e fuori budget, omaggi a cinema e fumetti transalpini in egual misura: la prima inquadrata celebra ad esempio Mio zio di Jacques Tati, ma è impossibile non vedere nell’ebbrezza giovanile del secondo episodio l’eco del movimento cinematografico della Nouvelle Vague e del Sessantotto.
Nonostante la pepata e salace ironia sparsa a piene mani tra le pieghe della sceneggiatura e l’impalcatura intellettuale a dir poco ingombrante, l’estetismo forsennato e stilizzato di Anderson non cancella però i temi di fondo, e piuttosto li esalta in un affresco rutilante. Restando proprio al secondo episodio di The French Dispatch – il migliore, ai punti, tra tutti – vi trovano posto ad esempio l’ambiguità della presunta “neutralità giornalistica”, chimera che presta il fianco a mille risvolti parodici e agrodolci, e il toccante, ma comunque un po’ ridicolo, idealismo narcisista della giovinezza.
Più che una lettera d’amore alla professione del giornalista, in definitiva, The French Dispatch è un film che usa il giornalismo come installazione videoartistica per riprodurre il mondo a misura di action painting, allo stesso modo in cui Grand Budapest Hotel adoperava la narrazione dentro la narrazione – e le storie dentro altre storie – per costruire un vertiginoso incastro di scatole cinesi sull’arte (e la tecnica: le due cose per fortuna per Wes sono inscindibili) del narrare. Lo sguardo sulla “categoria”, alla fine della fiera, si traduce, più che in un’esaltazione retorica, in un omaggio disincantato, che un po’ volgarizza e trivializza “all’americana” codici di racconti europei. Lo fa con gusto sempre sornione e a tratti quasi parodico, e si diverte soprattutto a lavorare nelle zone d’ombra assai fertili tra il tragico e il comico.
Nota finale: The French Dispatch, rimandato più volte nel corso del 2020, per la sua sospirata anteprima mondiale al Festival di Cannes 2021, dov’è in Concorso, per motivi imprecisati non ha goduto nella giornata di oggi dell’abituale conferenza stampa ufficiale di presentazione. Wes Anderson ha deciso infatti di non tenerla né di far fare attività stampa di qualsiasi tipo ai suoi attori. Alla luce del film, difficile stabilire se sia solo una strana “ironia della sorte” o piuttosto una scelta paradossalmente più coerente e carica di significato di quanto possa sembrare lì per lì (di sicuro non è il massimo del rispetto per i giornalisti, quelli veri, presenti sulla Croisette).
Foto: © 2021 20th Century Studios and TFD Productions LLC
Leggi anche: The French Dispatch: svelata la data di uscita in Italia e il nuovo trailer del film di Wes Anderson
Leggi anche: The French Dispatch: da Bill Murray a Timothée Chalamet, tutte le foto dal red carpet del film di Wes anderson
© RIPRODUZIONE RISERVATA