Leos Carax è una specie di tardo erede della Nouvelle Vague le cui opere non hanno intercettato grandi riconoscimenti, nonostante un Pardo alla carriera assegnatogli dal Festival di Locarno nel 2012. È stato a lungo, per indole, un emarginato di lusso, e ha girato appena 6 film in 37 anni guadagnandosi lo statuto di autore di culto grazie all’onda lunga delle maree cinefile e a certe catastrofi produttive che ne hanno alimentato il mito.
La vera frattura nella sua produzione è accaduta nove anni fa a Cannes, quando ha presentato Holy Motors, un film surreale e ondivago che racconta i continui cambi di identità di un uomo – l’attore feticcio Denis Lavant – e in questo modo celebra il cinema attraverso la messa in scena dei suoi generi e delle sue tecnologie (il cinema è una questione di “holy motors”, macchinari sacri). Non vince ancora una volta nulla ma rinforza il proprio status e in pratica si guadagna il film successivo, Annette, un musical produttivamente ricco – a tratti romantico, ma più spesso macabro e pessimista – che deve comunque attendere quasi nove anni per venire a galla.
L’apertura a Cannes e il cast principale di ultra-divi – Adam Driver e Marion Cotillard – lo mette idealmente in competizione con La La Land, ma Annette è anche pieno di rimandi allo stesso Holy Motors, di cui a tratti può sembrare l’esplosione di uno dei segmenti. La storia, tutta raccontata con approccio metafilmico, è quella della relazione tra uno stand-up comedian di nome Harry e una cantante d’opera di nome Ann, i cui equilibri emotivi e professionali vanno in pezzi dopo la nascita di una bambina, la Annette del titolo.
Il film procede per quadri scenici, attraverso belle sequenze dilatate, leggere negli stacchi e fotografate in modo espressionista da Caroline Champetier lasciando all’oscurità ampie porzioni del quadro, come se le ombre incombessero tutto il tempo sul destino dei protagonisti. Analogamente le musiche dei fratelli Mael, già collaboratori di Carax (ma guardatevi la loro filmografia, c’è davvero di tutto), si incupiscono sempre di più dal solare prologo nello studio di registrazione, in cui sono presenti assieme allo stesso regista e agli interpreti, e man mano che le scelte di Harry e Ann rivelano le loro tragiche conseguenze.
Il film funziona meno a livello di scrittura: la natura stereotipica di testi e personaggi nel musical è fisiologica, ma qui siamo vicini al grado zero nella definizione dei personaggi e dei comportamenti, mentre le tragedie si manifestano con un decorso quasi operistico. Così lo sviluppo è prevedibile e l’esperienza immersiva ma senza cuore, rischiando di perdere lo spettatore lungo un minutaggio che sfora ampiamente le due ore.
A questo bisogna aggiungere che la voce di Adam Driver non sembra mai a suo agio nello scambio tra parlato e cantato, e si appoggia spesso a un falsetto assai modesto. Molto meglio Marion Cotillard, se non fosse che il suo personaggio è appena abbozzato e che l’alchimia con Driver è scarsa. Bisogna insomma decidere di abbandonarsi completamente allo spettacolo scenico, certamente maestoso, e ai movimenti meditati della macchina da presa; e tener duro, nonostante il film sembri esaurirsi molto prima dei titoli di coda e poi continuare per inerzia.
Foto: I Wonder Pictures
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