Lo scrivo adesso, ne riparliamo tra qualche mese: Room – fresco vincitore del Festival di Toronto – è un serissimo candidato agli Oscar maggiori, edizione 2016; soprattutto la sceneggiatura (non originale, è tratta da un romanzo ispirato all’agghiacciante caso Fritzl) e la regia. Ma anche le interpretazioni sono fuori dal comune, ed è molto probabile che Room sarà nella short list dei nominati a miglior film.
Fatta la premessa, ecco un avviso: non guardate il trailer, per l’amore del cielo. Accontentatevi del minimo, cioè del titolo, riferito alla stanza in cui Jack nasce e cresce assieme alla madre Joy, una stanza da cui non esce mai e in cui lo troviamo il giorno del suo quinto compleanno, recluso da un uomo spaventoso e triste, che compare solo di notte.
Altro non si deve sapere, perché una premessa di questo genere può portare a film opposti, a un dramma gelido alla Haneke, a un torture porn, alla retorica della sopravvivenza, ad altro ancora. Non è insomma, e stavolta più del solito, lo spunto a fare la differenza, ma lo svolgimento; e in particolare ciò che Lenny Abrahamson (già regista di Frank, il film in cui Fassbender non mostra mai la faccia) decide di tacere, o far venire fuori quando non lo aspetti più.
E in questo rapporto tra spazi riempiti e lasciati vuoti – che sono gli spazi del racconto ma anche gli spazi dell’esperienza di Jack, che pensa il suo mondo inizi e finisca in quella stanza – sta la grandezza del film, e la commozione che provoca. Ma gli strati sono tanti, e seri, per esempio si parla di relatività della percezione, e della plasticità della psiche dei bambini.
Una grande lezione di regia e scrittura, con a disposizione margini di manovra minimi, servita da attori favolosi (Brie Larson, Jacob Tremblay).
Nella nuova puntata di BreaKing Pop Giorgio Viaro ci parla di Room e di cosa aspettarci da questo film