Lezione di cinema quanto mai attesa quella che si è tenuta ieri presso la Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica. Ospite del Festival è stato infatti uno dei registi più amati del mondo, autore di capolavori noir come Manhunter, Collateral e Miami Vice (di cui, negli anni ’80, aveva ideato e guidato anche la serie televisiva): Michael Mann. Come da tradizione, l’incontro si è svolto alternando la proiezione di alcune clip tratte dai film dell’autore, con i botta e risposta tra Mario Sesti – che cura la sezione EXTRA del Festival – e Mann stesso. Qui di seguito, per chi non ha avuto la fortuna di assistere dal vivo alla lezione, trovate la cronaca completa dell’intervista.
Prime tre clip proiettate.
STRADE VIOLENTE: la scena in James Caan e la sua banda aprono un grande caveau pieno di gioielli con una enorme fiamma ossidrica
MIAMI VICE: la “scena del mojito”, in cui Colin Farrell e Gong Li prendono un motoscafo e attraversano l’oceano per passare una serata all’Havana
HEAT: la celebre scena del dialogo nella tavola calda tra Pacino e De Niro
FESTIVAL DI ROMA: L’utilizzo del digitale ha cambiato il suo cinema?
MICHAEL MANN: Il digitale consente una forma visiva unica e diversa. Elimina i limiti in situazioni come il girare di notte. Se io voglio la notte di Los Angeles che si trasforma di colpo nel pomeriggio, il digitale lo consente. Consente anche di girare con gli attori per 17 o 18 minuti di fila senza interrompersi, il che in alcuni casi è fondamentale
FR: Il suo è un cinema “pragmatico”, in cui anche i criminali sono molto precisi e professionali nel loro mestiere, ma con improvvisi squarci di romanticismo.
MM: In primo luogo è sempre molto appassionante che personaggi e situazioni emergano dalla vita vera e non da altri film. James Santucci, l’uomo cui era ispirato il protagonista di Strade Violente, era un vero ladro di gioielli, qualcosa di reale, autentico. Santucci aveva la sua dimensione, aveva una moglie, amanti, fece tanti errori. Era un ladro di gioielli ma anche una persona come un’altra, in fondo la sua è una storia molto borghese.
FR: Ci parli un po’ della famosa scena di Heat con Pacino e De Niro.
MM: Intanto, nella vita loro due si conoscono, il che è stato di buon auspicio per tutti e tre, compreso me. Non avevano ansie su questa scena, erano già tre mesi che lavoravano su questi personaggi, li avevano interiorizzati. Erano “pieni” di quei personaggi. La mia idea, in questo caso particolare, era che questi due, seduti uno accanto all’altro, fossero le uniche due persone al mondo con una assoluta autocoscienza, una totale onestà su se stessi. Sono identici in questo, uno lo specchio dell’altra. Poi De Niro e Pacino avevano una tale armonia che magari io gli indicavo di fare un gesto e da lì in poi loro rispondevano istintivamente con le mani l’uno ai gesti dell’altro.
Seguono altre due clip.
MANHUNTER: la scena in cui il serial killer porta la ragazza cieca a toccare la tigre anestetizzata
COLLATERAL: la scena in cui due coyote attraversano la strada notturna di fronte al Taxi guidato da Jamie Foxx
FR: La scena del coyote era prevista dallo script o è stata una casualità sul set?
MM: Era già nel copione. In quel momento del film ci sono tre filoni della storia che convergono tutti verso lo stesso finale. Ci sono il tassista e il killer insieme, l’FBI che li aspetta e la mala che pensa il tassista sia il killer e vuole eliminarlo dopo che avrà compiuto il suo lavoro. Mi piace l’attesa di questa resa dei conti, e l’effetto che fa il coyote in questo momento di sospensione, anche se non è che ci vedo una vera e propria metafora. Vincent (il killer interpretato da Tom Cruise, NdR) qui è ormai diventato l’agente della mutazione che si è compiuta in Jack (il tassista interpretato da Jamie Foxx, NdR).
FR: Come mai spesso fa direttamente il cameraman nei suoi film? Perché ama prendere la macchina da presa di persona?
MM: Qualche volta lo faccio perché mi diverto, qualche volta perché voglio essere vicino agli attori. L’esempio migliore della bontà del digitale è proprio in Collateral. Sono le undici di sera e vediamo benissimo il vapore stradale illuminato dalle luci. Si vede questa sorta di prospettiva bizzarra, con questa sfumatura rosa.
FR: È impressionante il modo in cui la musica sottolinea gli attacchi di montaggio in Manhunter. Può commentare la scena della tigre?
MM: Confesso che anche per me è una delle scene più belle che ho girato. Sono trasportato dall’ambizione di usare tutti gli strumenti possibili per avere qualcosa di malleabile, che faccia calare il pubblico nel film nei momenti giusti. A questo convergono tanti elementi. Qui c’è la sensualità della ragazza cieca. Poi Dolarhyde (il killer di Manhunter, NdR) che si riconosce nella tigre che viene addomesticata dalla donna, e sviluppa una forma di adorazione. Nella scena successiva guarda la registrazione con la sua prossima vittima e guarda contemporaneamente il corpo della ragazza cieca. Lui cerca l’adorazione del corpo, mentre la ragazza cieca è completamente incantata dal modo in cui l’uomo l’ha conquistata con la tigre.
FR: È vero che ha avuto una corrispondenza con un serial killer prima di girare questo film?
MM: Ancora non si chiamavano serial killer. Ma è vero: si chiamava Dennis Wallace, e negli anni ‘70 l’ho conosciuto e incontrato un paio di volte. Il personaggio di Dolarhyde viene proprio da Wallace. Alcuni serial killer sono persone che sono state abusate o comunque deluse, e molto spesso il loro iter esistenziale è sempre lo stesso. Come persona adulta siamo davanti a una persona danneggiata. È una contraddizione forse, o magari no, ma mi sembra importante in un film far emergere il sentimento di chi teoricamente è un mostro.
Ancora due clip.
L’ULTIMO DEI MOHICANI: la scena della ragazza che si getta nel vuoto per non finire in mano ai pellerossa
HEAT: la scena della sparatoria per strada
FR: So che ami molto Sfida Infernale. Welles una volta disse che i tre migliori registi americani sono: “John Ford, John Ford e John Ford”. Lei è d’accordo?
MM: Quel film mi piace così tanto per molte ragioni. Ma c’è quell’immagine di Henry Fonda nel portico che si dondola su e giù e si sente cosi agile che mi piace in particolare. Effettivamente amo molto Ford. Non potrei fare 4 o 5 film uno dopo l’altro e amarne uno solo, come faceva lui, però. Non lavoro cosi. In realtà non è che mi abbia influenzato molto nella costruzione dell’immagine. Volevo dire una cosa riguardo alla sequenza di Heat, perché vederla così decontestualizzata fa un po’ male: l’azione in realtà ha senso solo rispetto al rapporto che esiste tra i personaggi nella storia. Quel momento dello scontro ha senso solo per il momento che ciascuno sta vivendo a quel punto.
FR: Le sue sono scene d’azione sempre molto ricche e articolate. Come le visualizzia e realizza?
MM: Dipende sempre dal contesto. Nella scena de L’ultimo dei Mohicani quello che ha determinato la costruzione della scena sul burrone, e il successivo scontro in cui viene ucciso il capo dei pelerossa, è il tema della frontiera, la collisione fra colonizzazione euro-americana e quella realtà, quel tipo di natura. Il senso della scena è la fine di un popolo e la sensazione che la realtà andrà avanti comunque. Il bordo del crepaccio e le montagne della Nord Carolina dove abbiamo girato vengono da lì. E il pellerossa è unicamente il cattivo in questo contesto? Una persona che sta affrontando la fine del suo mondo? No, ecco perché c’è quello sguardo tra il pellerossa e la ragazza prima che lei si getti nel vuoto. In Heat volevo invece la soggettività degli sguardi di De Niro e Pacino, una collisione tra quelle due soggettività. Per gli scontri a fuoco nel contesto urbano ho considerati il fatto che la polizia non è l’esercito, se non ha un rapporto di forze schiacciante e si trova di fronte qualcuno ben addestrato si trova a mal partito. Avevo due ex SAS (le forze speciali britanniche, NdR) con me, professionisti che mi hanno permesso di girare tutto in modo reale. La location stessa era reale e De Niro doveva spostarsi tra alcuni punti di riferimenti, dove i punti di riferimento erano ad esempio una cassetta della posta o una cabina del telefono. E gli attori li abbiamo addestrati con pallottole vere in un campo di tiro in California. Se li addestri così, l’immedesimazione è perfetta poi. Un pezzo della scena che abbiamo visto, quello con Kilmer, è tuttora usato da un vero centro di addestramento come esempio di ciò che va fatto in situazioni simili.
Ultime due clip.
ALì: la scena con Will Smith che si allena correndo per strada sostenuto dalle urla dei ragazzini che via via lo circondano
INSIDER: la telefonata tra Russel Crowe e Al Pacino, con Crowe chiuso in uno studio e Pacino che cammina sulla spiaggia
FR: Avete subito pressioni quando volevate girare Insider? (il film mette sotto accusa la potentissima lobby delle industrie del tabacco, NdR)
MM: No. Quando l’abbiamo fatto, il produttore sapeva che non avremmo tirato su dei gran soldi. Volevamo portarlo a casa senza accumulare perdite, ma non ebbi gran difficoltà a realizzarlo. Certo, le compagnie del fumo ci misero una certa pressione. In questo punto del film che abbiamo visto voglio sottolineare varie cose, prima di tutto il modo in cui i personaggi di Pacino e Crowe si rispettano ma non si piacciono e il modo in cui la vita del personaggio di Crowe, Wigan, l’insider che ha parlato mettendo in crisi le grandi compagnie del tabacco, sta ormai distruggendosi: la sua vita privata, la famiglia che si sfalda, il suo nome annientato. La strada che lo porterà al suicidio.
FR: Come sceglie gli attori?
MM: Il personaggio esiste prima dell’attore. Io cerco un attore con un curriculum adeguato. Wigan è stato costruito nella scneggiatura e poi Crowe è stato scelto, e si è calato nella parte: ha imparato a giocare a golf male come Wigan, che era un pessimo giocatore, e ha pure studiato chimica per parlarne con più criterio e convinzione. Voglio che l’attore approfondisca ogni aspetto della persona, se vera, che deve interpretare, anche la modalità dei singoli gesti. Questo è successo anche con Alì e Will Smith che lo intrepreta nel film. Ho circondato Smith di una vera e propria comunità nera, ho cercato di fargli assorbire rischi e motivazioni che Alì affrontò negli anni ‘60 quando si accorse di essere un simbolo anche politico. Quando affronta Foreman, Alì sa di essere un simbolo che affronta un altro simbolo, con Foreman che rappresenta lo status quo. Per questo lui decide dentro di sé che prima di cedere a Foreman morirà, gli succede quando vede i disegni dei bambini sui muri della città, che lo rappresentano anche fuori dal ring.
A questo punto iniziano le domande del pubblico.
PUBBLICO: Affidare i personaggi ad attori che sembrano fisicamente lontani o che hanno sempre fatto ruoli diversi, come acaduto con Crowe in Insider, o Tom Cruise in Collateral, o Daniel Day Lewis ne L’ultimo dei Mohicani, è un vantaggio?
MM: È una delle buone decisioni da prendere: prendi un attore e lo porti sul confine di qualcosa che non conosce, cosi lui è un pò nervoso. A quel punto deve tirar fuori qualcosa di diverso, fare un lavoro “di frontiera”, e questo mi appassiona quando lavoro con gli attori.
PUBBLICO: C’è una storia che vorrebbe raccontare ora?
MM: In realta ce ne sono quattro. Ma soprattutto un film ambientato nel Medioevo, basato sul modo in cui il Medioevo vedeva se stesso, non quei Medioevi cinematografici in cui del Medioevo ci sono solo i costumi. Vorrei carpire il punto di vista di un uomo che vive nel Quattrocento, capire che percezione di se stessi avevano, come guardavano a uno stormo di uccelli, capire se i contadini consideravano il concetto di “Io”. Probabilmente no. (Il film dovrebbe farsi e riguardare la battaglia di Agincourt, NdR).
PUBBLICO: Conosce il cinema italiano?
MM: Il cinema italiano di oggi non lo conosco molto. Amo Fellini, Pasolini, De Sica, Germi, Antonioni…
PUBBLICO: Che rapporto ha con il colore? La gamma cromatica è completamente diversa in Manhunter rispetto a Heat o Collateral.
MM: La mia relazione con il colore è che lo uso per raccontare storie. Wigan in Insider, nella scena che abbiamo visto, è immerso nel giallo, mentre Pacino è contemporaneamente nel blu delle Bahamas. Lo scontro dialettico è incrementato dal conflitto cromatico. Collateral invece è tutto girato di notte, e la notte è uniforme con queste sfumature gialle delle lampade stradali.
PUBBLICO: Non pensa che Nemico Pubblico è talmente realistico da essere un po’ freddo in certi punti?
MM: Non mi sono sentito distaccato in modo particolare dalla storia. Quel che si cercava di fare era cogliere la depressione di quei tempi, la stranezza di quei tempi, e la mancanza di pianificazione nella vita del protagonista, che a differenza di Buth Cassidy e Billy the Kid che volevano scappare in Sudamerica non ha un vero progetto di vita. Per il resto il realismo è un obbligo per me, è un obbligo fare una ricerca su tutti i dati reali, anche quelli che poi non uso.
L’ultima domanda precede una clip in anteprima del serial concepito da Mann sul mondo delle corse di cavalli, e di cui ha diretto anche alcune puntate. Tra i protagonisti ci sono Dustin Hoffman e Nick Nolte. Il serial ha un look molto luminoso, le scene delle corse di cavalli sono quasi scintillanti, le ambientazioni spaziano dagli ippodromi alle sale di casinò.
FESTIVAL DI ROMA: Pensa che le serie TV oggi abbiano maggior qualità del cinema?
MM: In questo momento negli USA la TV via cavo, e sottolineo “via cavo”, offre i migliori contenuti in assoluto. In questo senso, se guardo a HBO, abbiamo una vera e propria età dell’oro della TV. Con grandi scrittori e grandi attori che contribuiscono a prodotti sensazionali come Boardwalk Empire. (Foto Getty Images)
Michael Mann al Festival di Roma:
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