Qualche giorno fa, durante le interviste per Le Idi di Marzo, avevo chiesto a Philip Seymour Hoffman se Moneyball – film d’apertura qui a Toronto – fosse una specie di The Social Network ambientato nel mondo del baseball: lui mi aveva guardato un pò perplesso, grattandosi con pigrizia la barba rossiccia, e, senza mai sollevare le palpebre al di sopra dell’iride, mi aveva detto «Sì, una specie».
In Moneyball Mr.Hoffman non ha un filo di barba e, per la prima volta che io ricordi, porta i capelli rasati. Il riferimento a The Social Network veniva dal fatto che il film, oltre ad essere anch’esso scritto da sua maestà Aaron Sorkin, racconta la storia vera di Billy Beane (Brad Pitt), ex promessa del baseball professionistico, riciclatosi come General Manager (una via di mezzo tra il presidente e l’allenatore) degli Oakland Athletics, una delle squadre più povere della MLB (Major League Baseball). Ed è qui che Beane darà il via ad una vera e propria rivoluzione copernicana del più tradizionale degli sport americani, nonostante lo scetticismo feroce dei suoi collaboratori (tra cui il coach della squadra, interptato appunto da Hoffman).
In una battuta che in Rete circola già da mesi, Pitt/Beane dice «Ci sono le squadre ricche, poi ci sono le squadre povere, poi ci sono 50 metri di immondizia. E poi ci siamo noi». Ma come competere con i migliori se ogni anno sei costretto a vendere i pochi talenti che hai in squadra e a comprare quel che trovi a prezzo di saldo? Beane trova una risposta quando inizia a farsi la domanda giusta: «Non dobbiamo comprare giocatori, dobbiamo comprare vittorie. E le vittorie si ottengono con le basi conquistate. Noi dobbiamo comprare quelle basi».
In pratica il concetto espresso da Beane è che in uno sport generalmente gestito partendo da considerazioni estetiche e filosofiche del tutto aleatorie (si scelgono i giocatori da ingaggiare sulla base del carisma, dell’eleganza dei movimenti, perfino dell’affidabilità della fidanzata), si debba tornare drasticamente ai numeri, e comprare solo e soltanto i giocatori che garantiscono un’alta percentuale di basi conquistate, l’unica statistica che conti davvero. Come le conquistino, non importa. E il metodo funziona.
Su questo spunto, ovviamente perfetto per Sorkin, lo sceneggiatore premio Oscar costruisce una commedia umana che riflette sulle collisioni tra genio intuitivo e irrazionale persistenza delle tradizioni (cioè del pensiero dominante) in modo non diverso da quanto The Social Network faceva prendendo spunto dal web. Così, più che il classico film sportivo intasato di partite un pò grottesche, che culmina nell’inevitabile match della vita, Moneyball ha i ritmi del divertissemant teatrale per intelletti sofisticati, e spiace solo che tra tanti spunti originali sprechi una buona mezz’ora in un paio di cliché impolverati (i flashback su Beane da giovane, il siparietto con la ex-moglie).
Nota di merito per la regia di Bennett Miller (Capote) che riesce a passare quasi due terzi del film dentro a stadi o spogliatoi, senza puntare quasi mai l’obiettivo della macchina da presa nei soliti posti e nei soliti modi, evitando così quel senso perenne di deja-vù che rende molti film su baseball e football penosamente indistinguibili.
P.S.: la scienza sportiva fondata da Beane, con l’aiuto di un giovane neo-laureato in economia, si chiama sabermetrica. Oggi la si usa in molti altri sport, anche nel calcio. Per esempio ne fa uso il manager dell’Arsenal, Arsene Wenger.