Durante l’attività stampa di Il quinto potere, film d’apertura del Festival di Toronto, mentre sono in attesa di intervistare il protagonista Benedict Cumberbatch sento per caso una giornalista tedesca che parla del film: «Dovrebbe spiegare se Assange è un eroe o un terrorista, ma lo fa sembrare soltanto un cazzone». Poco dopo è lo sceneggiatore Josh Singer a raccontarmi che molti gli chiedevano come avrebbe fatto a mettere assieme lo script: «È una storia a cui manca il terzo atto». Cioè la risoluzione, la catarsi. Manca, diciamo così, il finale.
Entrambi gli aneddoti contengono parecchia verità, e raccontano i due problemi del film. Il primo è che nasce da un libro scritto dal più stretto (ex) collaboratore di Assange – per molto tempo anche l’unico, a causa della sua cronica diffidenza verso il prossimo –, Daniel Domscheit-Berg (Daniel Brühl), che con il creatore di Wikileaks ha interrotto ogni rapporto alla fine del 2010. Assange è dipinto come un rivoluzionario sfrenato, con una visione manichea del mondo e la psiche disturbata da brutti ricordi di infanzia. Un uomo disponibile a rivelare a cuor leggero informazioni sensibili senza alcuna forma di editing, e senza interessarsi ai rischi che questa politica implica (per esempio per gli agenti americani sotto copertura). È un film che si origina quindi su di un punto di vista molto netto, e si porta dietro il complesso di doverlo raccontare e compensare al contempo, come fosse un peccato originale. Ma la ricerca di un equilibrio assomiglia troppo a una semplificazione.
Due: per un film su Wikileaks sembra presto. I fatti riportati arrivano fino al novembre 2010, con la pubblicazione congiunta con il Guardian, il New York Times, Der Spiegel, El Pais e Le Monde dei documenti diplomatici riservati che vanno sotto il nome di Cablegate (a luglio era toccato ai leaks sulla guerra in Afghanistan e tre mesi prima, in aprile, ai segreti militari in Iraq, compreso il famoso video ‘Collateral Murder’ in cui si assiste al massacro di 12 civili iracheni, tra cui due giornalisti, da parte di un elicottero americano).
Da allora non sono passati nemmeno tre anni: nel frattempo Assange è stato condannato per reati di natura sessuale nei confronti di due donne svedesi, e attualmente è rifugiato da oltre un anno nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Ancora più importante: tre mesi fa Bradley Manning, ritenuto responsabile della più grossa fuga di segreti militari della storia americana, è stato condannato a 35 anni di carcere.
La storia ha appena iniziato a fare il suo corso.
Questo materiale bollente, benzina ideale per un thriller politico stile Tutti gli uomini del presidente, viene messo in scena da Bill Condon (Demoni e Dei, Kinsey, ma anche i due Breaking Dawn) con uno stile che fa pensare a Newsroom e Sherlock – le serie tv •, e Zero Dark Thirty: tanta camera a mano, tante inquadrature strette, montaggio frenetico – anche quando non serve –, e parecchie grafiche modaiole (un sacco di sovraimpressioni), che dovrebbero movimentare il film, farlo assomigliare alla Rete nelle sue metamorfosi, ma lo rendono soprattutto caotico.
Condon in realtà si spinge ancora più in là, fino a citare esplicitamente Quarto Potere, e lo fa – non vi diciamo come, per non rovinarvi la sorpresa – nella porzione più surreale del film, quella in cui immagina l’ufficio virtuale di Assange come una distesa di scrivanie sulla sabbia.
C’è infine da dire che i protagonisti sono eccezionali: Brühl, dopo Rush, si conferma come star nascente. E Cumberbatch lavora sulla voce, l’accento e il modo di muoversi di Assange, fino a raggiungere una mimesi impressionante – meriterebbe una nomination all’Oscar. Noi che l’abbiamo incontrato dal vivo, possiamo aggiungere che dei muscoli messi su per Star Trek non è rimasta nemmeno l’ombra: ha il volto immacolato, gli occhi turchesi, e le spalle magre di un angelo.
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