Pedro Almodóvar, fresco Leone d’Oro alla carriera qui alla Mostra del Cinema di Venezia, ha tenuto oggi al Lido una masterclass moderata da Piera Detassis, presidente e direttrice dei David di Donatello. Sala gremita di tanti giovani che hanno approfittato dell’occasione per conoscere da vicino uno dei maggiori registi europei contemporanei. Che ha iniziato parlando proprio dei primi passi della sua carriera:
«Ho comprato la mia cinepresa, una super 8, a inizio anni ’70 a Madrid. Allora lavoravo per la compagnia telefonica, ma avrei sempre voluto fare cinema. Purtroppo, la scuola di cinema in quegli anni di dittatura era chiusa, e così la mia scuola è stata esercitarmi con la cinepresa che avevo comprato».
Cosa vorrebbe dire a un giovane con il sogno della regia?
«Per fare cinema non servono necessariamente le scuole; il cinema è un mestiere che si impara mentre si gira. Se un giovane ha l’urgenza di diventare regista, non deve aspettare di avere un diploma; se ha qualcosa di urgente da raccontare, lo faccia subito. Io allora utilizzavo la super 8; oggi ci sono gli smartphone. L’importante, però, è essere sinceri in quello che si vuole raccontare».
Quando ha iniziato a vedere film?
«Da bambino con la mia famiglia vivevamo in un paese dell’Extremadura. Mi ricordo soprattutto il cinema in estate quando, su un muro – come faccio vedere in Dolor y Gloria – in modo confuso proiettavano spaghetti western, film messicani fantasy ma anche vecchie opere di autori come Antonioni, Welles e Bunuel. A scuola andavo a Caceres, il capoluogo della regione, dove andavo a vedere al cinema i nuovi film americani in technicolor. Ecco; i colori vivi, forti e intensi di quei film sono quelli che io ho sempre cercato di riprodurre nei miei lavori. Posso dire che devo molto al technicolor…».
Ricorda il suo esordio alla Mostra del cinema di Venezia?
«Era il 1983. Avevo girato L’indiscreto fascino del peccato. Allora il festival era diretto da Gian Luigi Rondi che si oppose alla selezione del film, considerandolo blasfemo. Questa sua posizione arrivò poi alle orecchie della stampa; ne nacque un vero caso tanto è vero che alla fine il film venne presentato al festival. Per questo la considero una mia vittoria cinematografica contro la censura».
Quali sono state le fasi della sua cinematografia?
«Per prima cosa spero che si siano visti i miei cambiamenti in questi trent’anni. Non solo per la necessità che avevo di non ripetermi, ma anche perché io stesso sono cambiato come persona. Negli anni ’80, quando ho iniziato a fare cinema, la Spagna usciva dalla dittatura e viveva un periodo di grande vitalità e libertà che si riflette nei miei film di quella decade. Ce n’è un’eco anche in Dolor y Gloria, perché tre dei personaggi sono proprio diventati adulti in quel periodo. Con Il fiore del mio segreto, del 1995, inizio a cambiare qualcosa nella mia cinematografia, cambiamento che culmina con Tutto su mia madre, Parla con lei e La mala educación; sono i film più essenziali che hanno fotografato come ero io in quegli anni e il mio rapporto con il mondo in cui vivevo. Questa traiettoria è poi continuata con titoli più sobri quali La piel che abito, Julieta e Dolor y Gloria».
Quanto è importante l’arte per lei?
«L’arte nei miei film è molto importante; definisce i personaggi e me stesso. I quadri che talvolta fanno da sfondo alle mie scenografie, sono personaggi. In Dolor y Gloria, il personaggio di Antonio Banderas vive isolato e la sua è una solitudine progressiva, accentuata dal fatto che teme di non riuscire più a girare film. I quadri di valore appesi alle pareti sono i segni tangibili del successo del suo lavoro; sono il risultato della gloria che ha avuto in passato».
Come considera il cinema italiano?
«Ho sempre detto di aver visto molto cinema italiano negli anni della mia formazione. Il neorealismo, per me, è un genere che funzionava allora e può funzionare anche oggi in diverse parti del mondo. Non ho apprezzato solo Fellini o Visconti, ma anche Bolognini, Furlini, Germi, Scola e Risi. Ferreri? Faceva un cinema particolare, tanto è vero che lo considero quasi un regista spagnolo. Ho ammirato anche la sua opera, in particolare, La grande abbuffata e Dillinger è morto; inoltre, ha lavorato con attori che poi sono stati sul set anche con me».
Cosa pensa di aver insegnato con i suoi film?
«Questa è una domanda che mi imbarazza. Non penso a me come a un cineasta che dia lezioni. Posso dire di aver portato al cinema personaggi che affrontano situazioni molto difficili, deliranti e che – malgrado tutto – sono liberi, mantengono una loro autonomia morale; non si fanno influenzare da pregiudizi, a prescindere dalla loro situazione sociale».