Pietro Marcello è il secondo italiano a passare in concorso a Venezia 76 con il suo Martin Eden, liberissimo adattamento del romanzo di Jack London datato 1909, spostato per l’occasione dalla California a Napoli e sceneggiato dal regista insieme a Maurizio Braucci. Protagonista un giovane marinaio, interpretato da Luca Marinelli, che dopo aver salvato da un pestaggio Arturo, giovane rampollo della borghesia industriale, viene ricevuto in casa dalla famiglia del ragazzo e qui conosce Elena, la bella sorella del ragazzo, colta e raffinata, innamorandosene al primo guardo.
Un’ossessione amorosa, ma anche il simbolo dello status social cui Martin aspira, inseguendo il sogno di diventare scrittore e avvicinandosi però anche ai circoli socialisti, contrapposti alle origini abbienti di Elena. «Probabilmente il film può sembrare un azzardo, ma ci siamo documentati parecchio – esordisce Marcello presentando il film alla stampa a Venezia -, Braucci mi fatto leggere il libro molto tempo fa e abbiamo pensato a una trasposizione partenopea perché Napoli è una città molto tollerante, ci siamo cresciuti ed è un vero e proprio laboratorio all’aperto. È una città di mare che accoglie, come Marsiglia, come Genova e tante altre città simili».
«Non è un film anglosassone, a livello di struttura forse si può smontare con poco – aggiunge Marcello precisando la natura del suo approccio, con umiltà e schiettezza non da poco -, abbiamo adottato però un metodo rosselliniano. L’imprevisto e l’imprevedibile, che sono strumenti propri del documentario, ci hanno guidato lungo il percorso. Per Jack London Martin Eden è un eroe negativo, e in fondo è autodistruttivo come Michael Jackson, come Fassbinder che è esploso perché faceva tre film l’anno. Martin rinnega anche la classe di appartenenza, come il figlio di Mario Merola in Zappatore, e vive il trauma dell’industria culturale come già successo anche allo stesso Jack London in vita».
«La sceneggiatura è un’opera incompleta, nel documentario poi non esiste proprio – continua Marcello -, Abbiamo anche voluto cambiare gli ambienti e il copione, che abbiamo trasformato al servizio del film e dell’evoluzione del progetto insieme a tutti gli attori. Con Braucci scrivevamo ma sapevamo che avremmo cambiato alcune cose e, ora che il film non è più mio e non posso più metterci mano, mi sento miope. Non credo che quella di Martin Eden sia la mia storia, ma di sicuro io non ho mai avuto grandi mezzi per fare cinema e mi piacerebbe anche tornare a fare film di repertorio. Ho sempre lavorato con gli archivi per lavorare sui contrappunti all’interno del montaggio, che è sempre il momento più adrenalinico della lavorazione di un film».
«Per me è essenzialmente un essere umano – dice invece Marinelli -, Se togliamo le parti politiche dalla storia c’è un sentimento di fondo che è fortissimo e che ci ha portato avanti nella creazione di questo film, il cui tracciato, che cambiava continuamente, richiedeva molta attenzione al qui e ora. Si tratta di un avventuriero, com’era lo stesso Jack London. Questi scrittori avventurieri mi hanno sempre affascinati. Davanti alla fine di Bella e perduta mi dicevo: “Fai che questo regista mi chiami” e poi per fortuna è successo. Un’altra grande emozione di questo progetto è stata anche ritrovare il mio mentore Carlo Cecchi. Se lui guarda ad Amleto, però, io a Indiana Jones!».
Foto: Getty
© RIPRODUZIONE RISERVATA