La passione politica e sociale di Elio Germano, uno tra i migliori interpreti del cinema italiano, non è una novità. Sempre in prima linea, sempre schierato in difesa dei diritti civili e contro gli abusi di potere, porta alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia il suo spettacolo teatrale in Virtual Reality, Segnali d’allarme – La mia battaglia, diretto dallo stesso Germano insieme a Omar Rashid.
Incontriamo i due colleghi e amici nel tardo pomeriggio, quando gli procurano finalmente un pranzo al sacco. Tra un morso a un panino e un sorso di birra, si svolge così la nostra chiacchierata informale.
Raccontateci come è partita questa collaborazione tra di voi.
Omar Rashid: «Da 16 anni sono legato al mondo dell’underground e ho conosciuto Elio per il suo progetto sconosciuto e parallelo, Le bestie rare, che è un gruppo hip hop (in cui Germano è una delle voci). Abbiamo fatto un documentario nel 2015, che si chiama Street Opera e quindi ci siamo conosciuti in quell’occasione. Quando ho scoperto questa tecnologia, è una delle prime persone a cui l’ho mostrata. E come ha reagito ce lo racconta lui…».
Elio Germano: «Ho reagito come un uomo delle caverne la prima volta che ha visto il fuoco. Perché il VR è qualcosa di molto violento, che ti tira fuori da dove sei e ti scaraventa in un altro luogo, dove tu hai percezioni diverse e dove potrebbero rubarti i soldi, farti degli scherzi o bruciare il ristorante in cui stai mangiando, senza che tu te ne accorga (ride, ndr). Questo è l’aspetto inquietante, che immagino sia stata molto simile come esperienza a quella avuta dalle prime persone che hanno visto la scena del treno dei fratelli Lumiére. Poi, però, uno capisce che con quel linguaggio puoi sia alienare e addormentare le persone in maniera ancora più violenta sia usare quella stessa forma di penetrazione nell’animo umano, per svegliare le coscienze e fare del bane. Trasferita in campo giornalistico in zone di guerra, per esempio, permette un tipo di esperienza assolutamente immersivo, perché senti il rumore delle bombe, ti accorgi delle persone che scappano dietro di te, sei totalmente partecipe ai fatti. Diciamo che ti riporta a quell’esperienza empatica che oggi è completamente annientata dalla velocità della comunicazione e dalla nostra incapacità di cogliere emotivamente i fatti».
La seconda metà del titolo dello spettacolo, La mia battaglia, è la traduzione di Mein Kampf, il saggio in cui Hitler espose il suo pensiero politico. Come mai hai scelto di riferirti al dittatore nazista?
E.G.: «Lo spettacolo parte come il monologo di un comico che via via si trasforma in dittatore. Basta non capire bene quello che ci viene detto e seguire gli applausi della folla, che ci si ritrova coinvolti in vicende spiacevoli e inaspettate».
In molti vi hanno visto un riferimento esplicito a Grillo.
E.G.: «Noi ci riferiamo a tutti. Da Salvini a Renzi, da Berlusconi a Grillo. La cosa è assolutamente trasversale. Chiunque stia su un piedistallo e parli alle persone ha un grosso potere. Noi, che siamo bombardati da opinion leader e altri personaggi che ci dicono cosa dire o fare, dobbiamo essere più educati al pensiero critico e smettere di ragionare per bandiere e fanatismi personali».
Secondo te, questa cosa è peggiorata nel tempo?
E.G.: «Rispetto agli anni ’70 c’è meno preparazione in tutti gli ambiti. Chiunque svolga un mestiere oggi è meno preparato di 40 anni fa. Basti pensare a come parlano i politici di oggi rispetto a quelli di ieri, che avevano anche una formazione politica superiore alle spalle. Il fatto è che il modello culturale competitivo che abbiamo imparato dall’America nell’immediato Dopoguerra non si era ancora radicato nel nostro tessuto culturale a quell’epoca. Oggi si recitano le competenze o si fa strada perché si è simpatici, si piace, non perché si è davvero bravi nel proprio lavoro. Ma soprattutto non si lavora più per il bene comune, ma per battere gli altri, scavalcarli. Questo modello si applica a livello trasversale in qualsiasi ambito e quindi anche alla politica, con rappresentanti che mirano a piacere e non a fare il bene della nazione. È una degenerazione culturale generale».
Questo tuo spettacolo vuole essere un antidoto a tutto questo?
E.G.: «Sì, una dose di veleno ancora più forte, che ti dia una scossa, ti faccia rendere conto di quanto sei avvelenato. E che è nata da delle inquietudini che mi sono sorte quando la gente ha iniziato a invitarmi a darmi alla politica. Questa esigenza di avere dei leader, di avere delle persone al potere che ci sono simpatiche, ci trasforma in ultrà. Non è che perché ti piaccio come attore allora devi condividere anche le mie idee politiche e seguirmi a prescindere. È una cosa di una gravità estrema. Nello spettacolo io metto proprio in scena delle questioni che sono tratte dal Mein Kampf di Hitler, ma le persone coinvolte nello spettacolo non se ne accorgono finchè io non dico la parola ebrei. Molti pensano che “la mia battaglia” faccia riferimento alla mia vita da attore, alle mie difficoltà personali e non si rendono conto a cosa stanno applaudendo. Dobbiamo capire che anche Hitler, per esempio, diceva delle cose fortemente condivisibili, anche perché ha studiato da socialista».
Quale potrebbe essere la soluzione a questo disfacimento culturale, secondo te?
E.G: «Innanzitutto, guardare la vita al di là degli schermi digitali. Capire che il mondo non è come quello che ci viene raccontato e costruire delle opinioni personali dopo aver verificato le fonti d’informazione. Bisogna partire da scuola, famiglia e lavoro».
Omar, puoi raccontarci invece i segreti del VR?
O.R.: «Il VR è un territorio inesplorato e quindi stiamo cercando di utilizzarlo e scoprirne le regole, anzi di scriverne la grammatica. Siamo ancora in una fase embrionale e dobbiamo affrontare il problema distributivo. Abbiamo scoperto, ad esempio, che il montaggio funziona al contrario del cinema. In un film più tagli fai e più ritmo c’è, nell’esperienza VR invece si tende a fare meno tagli possibili perché, portandoti totalmente da un’altra parte, serve del tempo per ambientarsi e anzi si creano situazioni in cui si vuole allungare l’esperienza».
Sembra, però, che manchi lo sguardo del regista come nel cinema. Giusto?
E.G.: «Per certi versi sì, ma in realtà la scelta di portarti in un determinato posto e di farti vivere proprio quell’esperienza lì, richiede una progettualità, un intervento autoriale. Per certi versi però è un’esperienza più museale».
Ci sono altre differenze rispetto al cinema tradizionale?
«Praticamente tutte, funziona proprio al contrario. Abbiamo girato due scene da 6 minuti in cui non succede niente e nel cinema tradizionale sarebbe stato un suicidio, invece in VR se fossero durato di più sarebbe stato meglio.
Per adesso è tutto statico. Il passaggio successivo sarà quando negli ambienti ci si potrà anche muovere».
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