Se c’è una capacità propria solo dei grandi registi è quella di raccontare una storia risaputa, perfino celeberrima, trasformandola in qualcosa di estremamente personale e privato. C’è riuscito anche uno degli ultimi maestri europei in attività, Roman Polanski, con il suo nuovo film, L’ufficiale e la spia, che ad 86 anni suonati lo riporta agli echi delle esperienze del suo tragico vissuto (il titolo originale, J’accuse, fa riferimento all’articolo in difesa di Dreyfus firmato da Émile Zola).
Lui, che da bambino vide coi suoi occhi l’orrore delle persecuzioni naziste ai danni della comunità ebraica polacca per poi raccontarlo ne Il pianista (qui esplicitamente citato), si cimenta con uno dei casi più controversi e dibattuti della storia transalpina, che in Francia ha un posto d’onore nell’immaginario collettivo ma è a tutti gli effetti una storia di disonore, una ferita aperta che a più di un secolo di distanza non smette di sanguinare.
Siamo nella Parigi del 1896, dove il Capitano dello Stato Maggiore Albert Dreyfus (Louis Garrel), di origine semita, viene degradato dall’esercito francese e confinato sull’isola del Diavolo, nella Guyana francese. L’accusa di alto tradimento, formulata dalla Corta Marziale, è quella di aver fornito ai temuti nemici tedeschi informazioni riservatissime. In suo aiuto interviene però l’ufficiale di carriera Georges Picquart (Jean Dujardin), che si accorge dell’innocenza dell’uomo e si avvale della sua posizione di nuovo capo dell’unità di controspionaggio per scoperchiare le vergognose ipocrisie dello Stato Maggiore dell’esercito.
Il film racconta questi eventi con una minuziosità impressionante: ogni dettaglio è studiato con rigore e perizia, il flusso di parole e dialoghi è avvincente dall’inizio alla fine nonostante la mole di materiale al servizio della narrazione. A muovere l’ispirazione di Polanski sembra esserci poi un doppio obiettivo, e una duplice matrice: da un lato raccontare un evento-chiave del Novecento, anticipatore per molti versi del dramma agghiacciante dell’Olocausto, e dall’altro firmare una sontuosa riflessione sulla colpa e la morale – e soprattutto sulle loro ricadute più temibili e infingarde – che non può non riguardarlo in prima persona e tingersi di macabra attualità. Alla luce delle accuse di molestie sessuali che continuano a perseguitarlo, naturalmente, ma anche in virtù del giustizialismo imperante che oggigiorno affolla il panorama dei media di ogni ordine e grado.
Il risultato è una grande e mai soporifera lezione di Storia, appassionante come un giallo ed elettrizzante come il migliore dei thriller politici: la scrupolosità maniacale non cancella il piacere torbido dell’affabulazione, in puro gusto polanskiano, e lo scarto notevole consiste nel fatto che Polanski non si identifica certo nella vittima dell’errore marchiano della giustizia, Dreyfus, ma nel Picquart di un efficacissimo e mai così misurato e coriaceo Dujardin. Un uomo statuario e irreprensibile, impegnato a districarsi nella selva di menzogne, documenti, bordereau, perizie calligrafiche così in malafede da superare ampiamente la soglia del ridicolo.
Un transfert che arricchisce la densità del film, spingendolo alle soglie di uno spessore psicologico e di una complessità davvero ragguardevoli, ben oltre il semplice film in costume. Merito della sceneggiatura di Polanski e di Robert Harris, autore del romanzo omonimo su cui è basato il soggetto, ma anche della tensione innestata nella regia: un’eccitazione che sta tutta nelle zone d’ombra fluttuanti tra il vero e il falso, nelle oscillazioni delicate e opache tra gli ambienti accarezzati dalla melliflua fotografia di Pawel Edelman. E, manco a dirlo, nella la forza con cui la verità si fa largo, selvaggia e indomita. Anche tra le sbarre.
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