Per girare Notturno, il suo film in concorso alla 77ma Mostra del Cinema di Venezia, Gianfranco Rosi ha viaggiato per tre anni ai confini dei conflitti in Medio Oriente, tra la Siria, il Libano, il Kurdistan e l’Iraq. Ne è un uscito un mosaico di storie private che aprono uno squarcio sulla quotidianità insopportabile della guerra. Il film, che è già nelle sale italiane e volerà poi ai festival di Toronto, New York, Telluride, Londra, Busan e Tokyo, nasce dal bisogno, dice Rosi, di andare a vedere di persona cosa sta succedendo dall’altra parte del mare, dopo aver raccontato i migranti a Lampedusa in Fuocoammare.
«È stata un’esperienza emotiva e fisica fortissima: ho trascorso tre anni in posti sconosciuti, pericolosi, feriti e sperduti senza conoscerne la lingua, in mezzo a un’umanità dolente». Rosi, che ha girato il film come unico operatore, ha isolato in particolare le storie di otto personaggi diversi per provenienza ed età, dalle anziane madri che cantano litanie per i figli fatti prigionieri e impiccati ai bambini di un’orfanotrofio traumatizzati dalle torture dell’ISIS sul popolo yazida. Ad accomunare tutti è la strenua lotta per la sopravvivenza in contesti di violenza, dittatura e conflitto. «Volevo documentare la loro esistenza in bilico sull’inferno, lì dove finisce la breaking news del telegiornale, provando a stabilire un contatto con loro per imparare uno sguardo diverso sul Medio Oriente». Ci è riuscito, racconta, seguendo le loro vicende per mesi e stabilendo con loro un rapporto di fiducia.
Secondo Rosi, le esperienze della pandemia e del lockdown potrebbero farci comprendere meglio la realtà di quei popoli, spesso invisibile al mondo occidentale: «Loro vivono da anni il tempo sospeso, il futuro incerto. In questo senso Notturno è più universale di quanto immaginassi».
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