Il road movie è un sottogenere trasversale, segue codici che si adattano a tutte le sfumature del dramma e della commedia, e alle diverse tracce nazionali, regionali, dialettali. Guida romantica a posti perduti è un road movie italiano “in fuga” dalle sue origini, e lo è fin dal cast, che affianca Clive Owen a Jasmine Trinca, Andrea Carpenzano a Irène Jacob, tutti attori bravi e con impronte interpretative molto diverse. Questo crea una specie di nodo linguistico (francese, inglese, italiano) ed emozionale, che è l’origine della storia, a Roma, e che sciogliendosi spinge i protagonisti sulla strada, dal centro verso le periferie, dall’Italia verso la Gran Bretagna.
Nella capitale si incontrano Allegra (Trinca), una travel blogger che soffre di crisi di panico e odia viaggiare, e Benno (Owen), un presentatore della TV inglese con gravi problemi di alcolismo. Un giorno lui sviene sul pianerottolo di casa di lei innescando una reazione a catena che la porta a litigare con il compagno (Carpenzano). Deve partire per un viaggio in cinque tappe, luoghi fatiscenti e abbandonati su cui scrivere la guida che dà il titolo al film, e, ritrovatasi sola, gli chiede di accompagnarla. Nella vicinanza tra i due non si sviluppa alcun meccanismo di “genere”, il film non diventa mai un vero mélo, né un dramma né una commedia – ne prende in prestito tutte le sfumature ma senza assumere una posizione. Location dopo location – tutte effettivamente affascinanti, tanto che il film diventa tra le altre cose una piccola guida turistica – a svilupparsi è invece un percorso di guarigione, magari ovvio per le premesse ma meno negli esiti, perché comunque aperto, incerto, senza risposte finali e consolatorie.
Ecco, in tutto questo, nei personaggi che si scambiano con fatica genuina lingue diverse, nelle istantanee di viaggio mai scattate sull’inquadratura più fotogenica, nei discorsi interrotti prima di dire troppo, cioè in una costruzione di senso non deterministica, Guida romantica a posti perduti pare un film molto più anglosassone che italiano. Giorgia Farina, che in effetti ha studiato cinema oltreoceano e aveva fin qui una filmografia stramba e affascinante, se pure acerba (Amiche da morire, Ho ucciso Napoleone), fa un passo deciso verso una emancipazione dell’immaginario da certe esigenze estetiche e produttive del nostro mainstream, e costruisce un’opera magari marginale ma a cui ci si affeziona volentieri, uno di quei film che lasciano ricordi buoni e persistenti.
Forse, se non fosse un film italiano, per un italiano non avrebbe la stessa rilevanza, ma è proprio in questo intralcio culturale la prospettiva di fuga che il film cerca (e trova), quando restituisce agli scenari del nostro paese una certa freschezza imprevista, obliqua, che di solito l’Italia ha quando finisce in un film anglosassone. E tuttavia con un surplus di malinconia e senza l’intenzione turistica che in quei film c’è sempre.
Curiosità a margine: uno dei “posti perduti” scelti da Allegra, che per lei è luogo di memorie familiari e riconciliazione, è un parco acquatico abbandonato. Uno scenario analogo viene usato invece come sfondo terminale e mortifero, per la disperazione dei braccianti, nel film del fratelli De Serio sul caporalato agricolo – Spaccapietre -, anch’esso alle Giornate degli Autori di Venezia 77.
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