Futuro prossimo: l’uomo ha colonizzato la Luna e addirittura Marte, attraverso un complesso sistema di tunnel sotterranei. Ora però misteriose tempeste elettriche mettono a repentaglio la vita su tutto il Sistema Solare.
L’origine della minaccia potrebbe avere a che fare con il Progetto Lime, una manciata di astronauti inviati a cercare forme di vita extraterrestre ai margini dell’eliosfera, dispersi da oltre un decennio in prossimità di Nettuno.
Per provare a riallacciare le comunicazioni, l’astronauta Roy McBride (Brad Pitt) viene spedito su Marte con il compito di inviare un messaggio verso il pianeta azzurro, sperando che suo padre (Tommy Lee Jones), comandante della spedizione perduta, sia in ascolto. Ma nessuno gli ha detto come stanno davvero le cose e la missione prende una piega imprevista.
Cuore di tenebra nello spazio, Ad Astra sovrappone la traccia intimista del rapporto padre-figlio alla vertigine dell’avventura interplanetaria, con l’idea di rifondare la fantascienza alla larga da qualsiasi forma di misticismo, sulla base di una visione umanista e ambientalista.
In questo senso l’ispirazione e l’obiettivo di James Gray sono molto più concreti rispetto allo slancio metafisico di Kubrick in 2001 Odissea nello spazio. Né l’onnipresenza del flusso di coscienza del protagonista – cioè la prevalenza della sua dimensione emotiva rispetto agli eventi che il film racconta –, deve far pensare a una associazione con l’approccio religioso di Malick, quando riflette sul rapporto tra esperienza umana e creato.
Anzi, tutto il contrario: il comandante Clifford McBride, novello Kurtz, inseguito da suo figlio ai confini estremi del sistema solare, è il depositario di un pensiero scientifico forte, che non si rassegna all’evidenza dei dati ma insiste a voler forgiare il mondo, assumendosi i rischi che questo comporta. E le scoperte che Roy fa alla fine del suo viaggio hanno tutte la dimensione della resa e del ritorno, non dello slancio verso l’ignoto.
Piuttosto Gray sta dalle parti del Nolan di Interstellar, per come riconduce il confronto tra l’uomo e l’infinito alla dimensione minuscola e privata degli affetti familiari. Oppure del Tarkovskij di Solaris, quando immagina che dall’alienazione del suo astronauta emergano i fantasmi della vita familiare, fantasmi che qui però non oltrepassano mai la dimensione realistica del ricordo.
Film di matrice fortemente intellettuale, con tempi dilatati e uno sviluppo a tesi, Ad Astra chiede di essere affrontato sul piano delle idee più che su quello del racconto, ma mette comunque sul piatto un grande lavoro scenografico (in particolare nell’incipit e nella parte su Marte) e alcune notevoli sequenze action, come l’inseguimento sulla superficie lunare, una specie di versione notturna e allucinata di quelli desertici di Mad Max: Fury Road. È probabilmente meno riuscito del bellissimo Civiltà perduta – il precedente film di Gray, che già si occupava di esplorazioni e del nostro rapporto con l’ignoto – ma è comunque un viaggio cinematografico capace di riservare belle sorprese.
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