Enea (Pietro Castellitto) rincorre il mito che porta nel nome: lo fa per sentirsi vivo in un’epoca morta e decadente. Lo fa assieme a Valentino (Giorgio Quarzo Guarascio, alias il cantante Tutti fenomeni), aviatore appena battezzato. I due, oltre allo spaccio e alle feste, condividono la giovinezza. Amici da sempre, vittime e artefici di un mondo corrotto, ma mossi da una vitalità che però è incorruttibile.
Oltre i confini delle regole, dall’altra parte della morale, c’è un mare pieno di umanità e simboli da scoprire. Enea e Valentino ci voleranno sopra fino alle più estreme conseguenze. Tuttavia, droga e malavita sono l’ombra invisibile di una storia che parla d’altro: un padre malinconico (Celeste, interpretato da Sergio Castellitto), un fratello che litiga a scuola, Brenno (Cesare Castellitto), una madre sconfitta dall’amore, Marina (Chiara Noschese), una ragazza bellissima, Eva (Benedetta Porcaroli), un lieto fine e una lieta morte, una palma che cade su un mondo di vetro in cui i baci, si spera, possano tornare a esistere…
Enea, definito dal suo regista Pietro Castellitto «un gangster movie senza la parte gangster», è l’opera seconda del figlio d’arte dell’attore Sergio e della scrittrice Margaret Mazzantini, dopo il sorprendente I predatori, vincitore del premio come miglior sceneggiatura nella sezione Orizzonti e del Nastro d’argento e del David di Donatello come miglior regista esordiente. Se quel primo film era la radiografia grottesca e caustica di una famiglia divisa tra proletariato bonario e conservatorismo fascista, qui siamo alle prese con un lavoro dagli orizzonti molto più larghi, coraggiosi, ambiziosi e spericolati, dove la famiglia è anzitutto un “clan”, come evidenzia e sentenzia il prologo.
Castellitto jr., promosso per l’occasione nel concorso di Venezia 80, immortala infatti una Roma abbiente che non ha bisogno di eroi ma probabilmente non può fare a meno di figure tragiche, vitali, fallite, romantiche e ciniche come questo Enea, che smercia cocaina, è ricco, possiede un ristorante di sushi, ha sempre l’auricolare bluetooth in un orecchio e al suo psicologo, nel riconnettersi col suo inner child, dice cose come «i voti buoni sono la droga che ci danno per non farci un’opinione».
È lui il fulcro di una disfunzionalità che il film racconta come fossimo dentro una “grande bruttezza” sorrentiniana (come l’ha definita il direttore di Venezia, Alberto Barbera), con invenzioni di regia a ripetizione e uno stile elettrico e schizofrenico, il cui narcisismo è tale da rischiare di far smarrire la bussola allo spettatore più ignaro o a chi, consapevolmente, decide di chiamarsi fuori da questo sovra-tono noir e nevrotico che abita Enea dall’inizio alla fine: il gusto iperbolico accosta dopotutto domestici filippini assassini, membri maschili di cuochi giapponesi immessi nelle bocche dei salmoni, baci sempre velati da posizioni di spalle o da schermi neri e un insistere, costante, su questa dimensione orale anche nelle battute («Ci sta una bocca sopra questa città che è pronta a mangiarci tutti e se non ci facciamo amicizia ci sputa come uvetta»).
C’è tanta malinconia, dentro Enea, prodotto, oltre che da Lorenzo Mieli con The Apartment, anche da Luca Guadagnino con la sua Frenesy Film, ma anche un umorismo pirotecnico e una caratura aforistica strampalata («Le belle ragazze rendono la vita leggera come un treno di nuvole») che rischiano puntualmente di far deragliare la storia, anche se Castellitto trova sempre il modo di riprenderla per i capelli e dare vita a uno slancio creativo, senz’altro legittimamente rifiutabile e non per tutti i gusti, ma anche autenticamente nuovo, sfacciato, giovanile ma non giovanilistico, davvero contemporaneo, pulsante. Si veda ad esempio il modo in cui certe sequenze sono coreografate a partire dalla colonna sonora, con brani laterali della produzione popolare italiana come Spiagge di Renato Zero, Bandiera gialla di Gianni Pettenati e la più ovvia Maledetta primavera di Loretta Goggi (la soundtrack delle musiche originali non di repertorio è invece firmata da Niccolò Contessa de I Cani).
L’aspetto psicanaliticamente più interessante, in un film che gioca d’accumulo, inanellando diversi momenti graffianti e su di giri, è il modo in cui Pietro Castellitto mette in scena Celeste, il personaggio del padre interpretato dal papà Sergio Castellitto, morto dentro proprio come tutti gli adulti borghesi e pasciuti del film, perbene ma crepati e falliti, tra depressioni e Tevere Country Club («La differenza tra di noi è che io sono nato in una famiglia povera, tu no», dirà al figlio). In questa vocazione verso l’auto-ritratto impietoso e non assolutorio, accomunabile – ovviamente con un mutatis mutandis grosso come una casa – al primo Nanni Moretti, c’è un rifiuto smargiasso e paradossalmente romantico dell’apatia e del nichilismo che, nel suo piccolo, punta esclusivamente all’affermazione identitaria di una personalissima e non riconciliata umanità, che ha fatto finalmente pace, nel segno della dissacrazione, anche con la tipica indolenza romana e con le pastoie tipiche della generazione dei millennial.
Foto: The Apartment, Vision Distribution, Frenesy
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