Martin Eden, il romanzo di Jack London pubblicato la prima volta (a puntate) nel 1908, è di per sé una lettura complicata, muove infatti una critica al pensiero individualista e alle politiche liberiste – quindi implicitamente sostiene il socialismo – attraverso un antieroe (egoista e ossessivo) che attraversa un lungo processo di emancipazione culturale ed economica, un percorso di riscatto, per il quale dunque lo spettatore fa a lungo il tifo. Pietro Marcello, assieme al co-sceneggiatore Maurizio Braucci, ne ha tratto un film altrettanto complesso e affascinante.
Martin Eden (Luca Marinelli) è un marinaio, un ragazzo di origini umili che si innamora per caso di Elena (Jessica Cressy), primogenita di una ricca famiglia della borghesia industriale. La casa della ragazza, i libri, la musica, le conversazioni, poi l’attrazione fisica, sono la scintilla che libera le ambizioni di Martin, deciso a costruirsi una cultura e una carriera da scrittore. Solo che come in ogni percorso da autodidatta è la casualità e non il metodo a costruire le idee: l’incontro traumatico con un saggio di Herbert Spencer, filosofo evoluzionista e teorico del darwinismo sociale, lo trasforma in un fervente avversatore delle dottrine socialiste, pur rimanendo fortemente critico nei confronti del capitalismo.
Il conflitto che ne consegue è doppio: il ragazzo disprezza i movimenti operai ma anche la ricca famiglia di Elena, isolandosi sempre di più e tuttavia conquistandosi infine – e sostanzialmente per caso – la tanto agognata celebrità letteraria e il conseguente progresso sociale.
Tutto questo nel romanzo di Jack London accade a inizio secolo tra Oakland e San Francisco, mentre nel film di Pietro Marcello siamo in Italia, in un tempo indeterminato che è una “crasi” (termine rubato alle note di regia) della prima metà del Novecento, e in una città che è Napoli.
Il film rappresenta soprattutto due cose: l’ambizione di fare un cinema “alto” ma popolare, che trasformi cioè una questione filosofica in una spettacolare (in particolare in un dramma romantico), e un tentativo di “musicare assieme” materiale documentario e fiction con un grande divo, senza soluzione di continuità, ottenendo un prisma: illuminato nel buio della sala libera coerentemente tutti i colori del suo spettro – storia, filosofia, volti da strada e da libri di testo (lo spezzone con l’anarchico Malatesta), sperimentazione audiovisiva, canzonette e musica classica, attori celebri e mai visti, teatro da camera e slanci naturalisti.
C’è quindi in Martin Eden il fascino del romanzo d’appendice, l’opportunità di esplorare un dibattito storico-politico (si dirà “molto contemporaneo”, probabilmente non lo è, ma non importa: già essere partecipi di una discussione del genere, impegnarsi a valutarla, è bellissimo) e il piacere del prestigio registico, la cifra stilistica di Pietro Marcello: questo slittamento continuo tra vero e verosimile, molto più di un’imitazione, che fa impallidire le acrobazie digitali dei family movie che conquistano il box office.
Qui il recensore si ferma, rilegge il testo da capo e sente il bisogno di rassicurare il lettore-spettatore, che potrebbe essersi spaventato. Niente affatto: è grande cinema, degno dei nostri maestri. Si segue con passione, si guarda con gusto, si ragiona nella misura che l’umore favorisce.
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